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Nei club di Bristol dei primi anni ’90 si respira, assieme al fumo denso dell’hashish, una musica strana e bastarda. Tanto reggae, soprattutto nella sua variante elettronica, il dub; hip hop, in una versione più riflessiva di quello militante d’oltreoceano; e club music, ovvero il bricolage musicale dei dj e i loro piatti, spogliato dei lustrini modaioli dei templi della nightlife londinese.
E’ la musica che mastica il Wild Bunch, un collettivo underground da cui escono “3D” Del Naja, “Daddy G” Marshall e “Mushroom” Vowles, ovvero i Massive Attack. Nel loro album d’esordio si sente l’aria pesante di Bristol, ma anche un sacco di altre cose: “Blue Lines” è un miscuglio di vibrazioni reggae, bassi dub, voci soul e strofe hip hop; un calderone vivo e pulsante di suoni neri, eppure frutto in gran parte dell’officina del dj e dei suoi campionamenti.
Accanto ai tre Massive si alternano Tricky Kid (che poi sarà solo Tricky), non ancora il sinistro poeta di inquietudini degli album solisti; Horace Andy, leggenda vivente del reggae che diventerà amico e collaboratore assiduo; Shara Nelson, splendida voce soul che tra l’altro regala all’album una hit da alta classifica, la struggente “Unfinished Sympathy”. Brani come “Safe From Harm”, “Daydreaming”, “Hymn To The Big Wheel” eludono ogni tentativo di classificazione, confondono le idee tanto ai nightclubbers che ai detrattori della musica “non suonata”; e alla fine, quando perdi la voglia di menarla sul “campionamento sì campionamento no”, ti resta la bellezza di un album intramontabile, giocato tutto sul filo del cambiamento ma, forse, già classico.