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Il primo live ufficiale dei Radiohead arriva all’apice della loro fama. Partiti da un impianto pop con venature rock hanno continuato a sperimentare passando da un capo d’ispirazione all’altro (Smiths e U2 per Pablo Honey, Pixies e R.E.M. per The Bends, Velvet Underground e Pink Floyd per Ok Computer, sempre i Pink Floyd e gli U.K.L.E. per Kid A, Miles Davis per Amnesiac) senza mai perdere il senso della propria musica. Che si è via via fatta sempre meno immediata, più studiata, più colta se si vuol dire così. Mancava un live a testimoniare la grandezza di questo gruppo, capace di rendere semplicissime agli occhi dello spettatore trame al contrario fitte e contorte, capace come pochi al giorno d’oggi di emozionare e di commuovere. Perché Thom Yorke canta da sempre l’inadeguatezza dell’essere, la propria incapacità di comprendersi, il proprio disorientamento davanti alla “civiltà”, e lo fa con una sincerità che lascia sbalorditi.
I brani – pochi, a dire il vero, scelta molto particolare per un live – sono stati estrapolati da concerti tenuti ad Oxford (la loro città d’origine), Berlino, Oslo e Vaison La Romanie. Si inizia, così come iniziava il loro ultimo tour, con un’energica e trascinante versione di “The National Anthem”, anticipata da suoni e voci campionate, guidata con inarrestabile forza dal basso di Colin Greenwood e dalla batteria geniale di Phil Selway. Segue, applauditissima, “I Might Be Wrong”, adagiata sull’efficace riff di chitarra e sulla voce angelica e consapevole di Yorke (“Potrei essermi sbagliato. Pensavo che nessuno di voi avesse un futuro”). L’assolo di chitarra è straziante e dolente e trascina nell’atmosfera aulica di “Morning Bell”, eseguita nella versione di Kid A. L’eccezionale batteria spezza il canto e consente all’organo Hammond di elevarsi al di sopra delle menti, mentre le rumorose chitarre si fanno largo nel basso, quasi a voler testimoniare l’attaccamento al suono, allo sporco, alla distorsione. Poi, una sorpresa: una versione di “Like Spinning Plates” disadorna, senza fronzoli elettronici, senza registrazioni mandate al contrario o suoni aggiunti, solo affidata al pianoforte splendido di Yorke che trasforma il brano in composizione da camera (solo un leggero coro di tastiere lo segue) e fa perdere la cognizione dello spazio. Cognizione che torna dirompente con il rave culturale di “Idioteque”, devastante e sfrenata, coinvolgente e folle. Ed è la follia a guidare il gruppo nel punto più alto dell’album, una versione di “Everything in its right place” anticipata da un gioco con la tastiera, da un raccoglimento di voce di Yorke che gorgheggia sommesso prima di dare il “tre, due, uno” e di partire. Una versione deviata, allungata, dilatata (cosa questa abbastanza comune per i Radiohead), disturbata. Pura psichedelia elettronica. Tocca a “Dollars and Cents” riportare il tutto ad un livello più normale, eseguita correttamente ma senza troppi tocchi di genio.
E a chiudere una versione acustica, straordinaria, di “True Love Waits”, brano che fa parte dell’immenso repertorio di B-side che il gruppo può permettersi di sfoderare ad ogni concerto e che li rende, ai miei occhi, l’unica band capace negli ultimi anni di inventare la propria musica, di andare contro se stessi, di smentirsi senza mai perdere in credibilità, senza mai lasciarsi influenzare dalle mode e dalle correnti.
(Raffaele Meale)
14 novembre 2001