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Il suono del silenzio, questo erano stati i Low in questi anni. Minimali, oscuri, taglienti eppure dolcissimi, la band di Duluth era stata capace di creare qualcosa di inconfondibile, di realizzare un capolavoro come “Trust”, prima di decidere di rivoluzionarsi.
Per anni avevano giocato con i pieni e i vuoti del suono, cercando ogni spazio tra le parole e le note, lasciando vibrare l’aria; ora, “The great destroyer” si mostra più denso, alla ricerca di ogni dinamica espressiva, perfino più aperto all’esterno, desideroso di avere un impatto anche fisico sull’ascoltatore. Vi riesce, magnificamente, fin dalle prime note: “Monkey” è una statua di carne, un viaggio al termine della notte, ansioso e perturbante, con quelle chitarre gonfie, i rintocchi secchi della batteria, le voci che si rincorrono sulle solite armonie incantate; ancora più fisica è “Everybody’s song”, ammantata di stridori, guidata da un riff diretto come un pugno. Altrove l’atmosfera si fa più serena, le canzoni tendono ad un pop che sa di vecchia psichedelia (il singolo ”California”, una “Just stand back” che rappresenta in assoluto il momento più orecchiabile della carriera dei Low, la non eccezionale “Step”, la lunghissima “Broadway”, con un finale dilatato e sognante).
Le vecchie nubi, però, si nascondono dietro la serenità apparente: “Silver rider”, dopo tanto sorprendente rumore, arriva con delicatezza, cresce di malinconia dolce e rassegnata, la chitarra si erge come un muro di ovatta nel finale; “On the edge of” recupera pienamente il verbo slowcore, ma si arricchisce di timbriche inedite, di nuovi colori, così come “Cue the stings” è un tuffo nel cinematografo onirico dei Mercury Rev (e non a caso, è Dave Fridmann a produrre questo disco). È sul finale, però, che i Low decidono di afferrarti il cuore, e lo fanno ricordandoti da vicino Neil Young, cantando di una vita pacificata (“When I go deaf”, con la sua imponente deflagrazione finale) o di un uomo che ha abbandonato i suoi sogni (“Death of a salesman”, ancora più toccante se si pensa alla recente scomparsa di Arthur Miller); oppure decidono di aggredirti nuovamente, facendoti sobbalzare nell’ombra (“Pissing”, unione di feedback e di tastiere che hanno l’inquietudine della musica di Angelo Badalamenti) o invocando una purificazione finale tendendo quasi al garage (“Walk into the sea”: il suicidio? la salvezza? entrambe le cose?).
In fondo, la rivoluzione è solo apparente: i Low hanno raggiunto probabilmente il punto più alto della loro arte, quello in cui, anche mascherandosi e voltando le spalle a se stessi, rimangono perfettamente riconoscibili. La loro dolcezza e la loro oscurità rimangono disarmanti: “The great destroyer” è dunque il loro ennesimo capolavoro, e questo mi fa dubitare della capacità di questa band di creare qualcosa che non sia splendido.