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Dov’eramo rimasti con gli Air? Nello scorso anno avevamo assistito alle bizze adolescenziali del progetto Darkel e all’autocelebrazione un po’ buttata via del disco di Charlotte Gainsbourg, quasi che gli Air non avessero la concentrazione sufficiente per fare uscire finalmente quel nuovo loro album che mancava dagli inizi del 2004. Più precisamente comunque il punto dove c’eravamo lasciati è uno: la traccia 10 di “Talkie Walkie”, quella “Alone In Kyoto” (già inserita nella colonna sonora di “Lost In Translation”) dove suggestioni giapponesi toccavano per la prima volta il tocco del duo di Versailles. Gli Air ripartono di lì per questo “Pocket Symphony”, inserendo degli strumenti giapponesi come il koto e lo shamisen a fianco dei loro synth e puntando tutto, ma proprio tutto, sul minimale. Una sinfonia tascabile davvero, e chissà che gli Air non abbiano copiato l’idea del tascabile ai nostri Offlaga.
Diciamolo subito: nonostante tutte le nostre riserve iniziali pre-ascolto (o forse proprio grazie a queste, le alte aspettative fanno male…), gli Air hanno fatto il loro album più riuscito dai tempi di “The Virgin Suicides”. Abituati a qualche cafoneria (in “Talkie Walkie” c’era una canzone kitsch come “Surfing On A Rocker”, “10 000Hz Legend” era tutto cafone…), qui gli Air riescono a mantenere fisso un registro definito, di basso livello, tirando giù tutti i volumi per far emergere un qualche strano strumento del Sol Levante qua e là ed ottenendo tanta, tanta atmosfera. Guardandosi indietro. Alcuni momenti potrebbero infatti essere usciti da “Premiers Symptômes”: certamente l’iniziale “Space Maker”, ma anche l’incipit di “Photograph” o tutta “Mer du Japon”. Il che è una garanzia, dato che “Premiers Symptômes” aveva fatto gridare, al tempo, al miracolo.
E ora mi si conceda un ragionamento molto soggettivo. Gli Air hanno messo su una riuscita banda del “crimine musicale”: il “mandante-supervisore” è il solito Nigel Godrich alla produzione, con cui interagiscono meglio che nel precedente lp, gli “aiutanti-palo” sono Neil Hannon dei Divine Comedy e Jarvis Cocker (che cantano, rispettivamente, “Somewhere between waking and sleeping” e “One hell of a party”), gli “autori materiali” sono sempre loro. Nessun furto musicale ai danni di altri, nessuna rapina ai danni degli ascoltatori, la Banda del Crimine Air ha piuttosto rubato i nostri ricordi e quando esce con un album del genere ce li ributta in faccia. Abbiamo troppo amato la malinconia di “Moon Safari” e delle Vergini per non poter trasalire quando per la prima volta le nostre orecchie incontrano note sublimi come quelle di canzoni come “Redhead Girl”. Gli Air c’erano quando abbiamo mollato la nostra prima ragazza e c’erano anche quando ci siamo dati il primo bacio con un nuovo amore, ci hanno praticamente rubato tutte le emozioni più grosse e pretendono di farci riconfrontare con esse così, a tradimento, senza preparazione.
Ma queste sono solo sensazioni, dalle quali il compito recensore non si fa traviare. Perciò l’attento lettore si limiterà alle sole prime oggettive annotazioni e dimenticherà queste ultime. A meno che gli Air non abbiano già rubato qualcosa anche a lui.