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“Non ti ha masterizzato un cd… ti ha fatto una cassetta!”. Nel 2007 questa frase la pronuncia Lee in “Grindhouse – Death Proof” di Tarantino: segni dei tempi. Eh sì, le news danno che a Londra la tanta beneamata “cassettina” è andata in pensione. Currys, la più grande catena di elettronica, ne ha sospeso la vendita. Se non riesci a trovarla in giro da comprare, beh, il passo da lì alla sparizione come i velociraptor è breve.
Per chi come me non aveva il piatto dei dischi ma solo la piastra è la fine di un’era, di una vecchia neanche troppo velata battaglia con i feticisti dei vinili con la loro supposta supremazia dei dischi a livello di qualità nella riproduzione sonora. Una fine a cui, personalmente, non mi voglio abituare: faccio ancora le interviste con un walkman a cassette. E’ un modo di pensare analogico, ora più che mai retrò, che potrebbe essere quasi scambiato per snobismo: in realtà è più che mai nostalgia canaglia.
La musicassetta, ci dicono le cronache, nasce nel 1963 per merito della Philips, azienda che evidentemente è sempre stata all’avanguardia nella ricerca e sviluppo (anche il cd si deve alla Philips, merito però da dividere con la Sony). Il vero boom lo ebbe con la creazione appunto del walkman nel 1979, per cui le sue ridotte dimensioni e la sua portabilità contribuirono a farla amare da tutti quelli che volevano portarsi la musica in giro, antesignani dell’I-Pod. Ma non solo per questo le cassette hanno spopolato, io credo perché hanno contributo a creare una vera e propria forma mentis musicale. Per tante ragioni.
Primo: la possibilità di fare le compilation. Rob non avrebbe potuto fare nessun nastro per la sua Laura e “Alta Fedeltà” non sarebbe mai esistito. E se le storie d’amore grazie alle cassette nascevano poi davvero anche nella realtà, la novità era proprio quella di diventare padrone della propria identità musicale, facendosi una compilation, anche solo per se stesso, si metteva nero su bianco quello che si ascoltava e quindi si era. Tutti discorsi che valgono ancor oggi per i cd, o meglio fino a ieri visto che adesso bisogna già parlare di playlist virtuali su supporti mobili come l’I-Pod, ma correlati a quegli anni assumevano una forza propulsiva stratosferica confrontati con i dischi, che questa possibilità non la davano. L’ immutabilità del vinile aumentava il fascino dell’immaginario musicale, con quelle copertine enormi in cui ci potevi navigare dentro con il pensiero, e ha contribuito forse a rendere immortali certi album del rock dei Sessanta e Settanta proprio per questa sorta di essere un “supporto granitico”, però – è da dire! – il vinile non era cosa accessibile a tutti. Certo a chi se lo poteva comprare.
Con le cassette già a scuola c’era il tuo giro di amici tra cui ci si registrava gli album, lo comprava uno e – voilà – la magia della duplicazione era possibile come novelli Silvan. E a pensarci bene quel giro di amici appassionati era un minuscolo, ristretto, esclusivo antenato di un server di Napster. Ecco quindi un secondo importantissimo motivo per dare alla cassettina ciò che è della cassettina: il nastro come momento di “libertà”, alla facciazza, è brutto da dire ma era così, dei diritti d’autore. Era ed è illegale, ma tollerato in quanto non era di certo una pirateria su larga scala: se nessuno dei tuoi amici ne voleva sapere di comprarsi “The Real Thing” dei Faith No More e registratelo restava solo l’opzione acquisto.
Con il nastro (registrato) c’ero lo spazio anche per sbizzarrirsi con l’artwork, e si diventava come minuziosi certosini scribacchini per personalizzare le fascette e poter riconoscere al volo gli artisti. E poi: le cassette di qualità si sentivano bene. Poche storie. E’ chiaro che se compravi le HF della Sony ti portavi nelle orecchie tanto di quel fruscio che neanche tutti i Dolby B o C di questo mondo potevano aiutarti, però se si sceglievano cassette di qualità – mi vengono in mente le AR della TDK – c’era una grande resa. E poi se amavi le frequenze alte bastava declinare su quelle al Cromo: poca resa sulla corposità e sui bassi, ma che limpidezza di suono!
A volte il nastro si rompeva, bisogna ammetterlo. Ed erano cazzi. Si rimediava con dello scotch che teneva finché teneva però il danno era fatto e la canzone sarebbe stata monca a tal punto che se la ascoltavi per bel po’ così non riuscivi più ad immaginarla completa.
Altro dubbio amletico: l’abbinamento nelle C90. A quel tempo gli album duravano quasi tutti meno di 45 minuti (e forse era davvero buona cosa) e quindi in una C90 ce ne stavano – perfetti – due, uno nel lato A e uno in quello B. Se facevi una cassetta con “Outlandos D’Amour” e “Reggatta De Blanc” non c’erano problemi, quel nastro anzi assumeva uno charme da summa della discografia dei Police che era impagabile. Però se in quel momento il tuo amico poteva registrarti solo gli Iron Maiden su di un lato e gli Housemartins nell’altro (è successo!), ecco che la cassettina diventava un oggetto perverso, bieco, che lanciava segnali contraddittori e musicalmente confusi. Rimaneva all’ascoltatore dipanare quei dubbi.
Oggi anche sul Web si celebra la musicassetta. Basti pensare a siti come Tiny Mix Tapes che ti consiglia compilation con un lato A e un lato B. Mentalità retrograda, ormai siamo più lineari, duecentocinquanta canzoni contenute in comoda funzione random in un aggeggino più piccolo di un pacchetto di chewing-gum. A me piace andare avanti, per fortuna che ci si va. Però, ed è un dato innegabile, la cassettina manterrà sempre un fascino un po’ punk anarchico da ciclostile. Il fascino dell’autonomia musicale, e non è proprio poco.
11 giugno 2007