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Apro la recensione del settimo album in studio dei Radiohead sciorinando, con atteggiamento vagamente preoccupato, delle semplici cifre: l’album è stato reso disponibile al pubblico (tramite l’oramai arcinoto download dal loro sito) il 10 Ottobre. Nei giorni immediatamente seguenti era già possibile trovare in rete recensioni che (nella maggior parte dei casi) gridavano al capolavoro sommo e (in una sparuta minoranza) declamavano con aria funebre l’appassita ispirazione della band di Oxford; per non parlare di RYM (Rate Your Music), dove l’album è stato votato da centinaia di persone già il primo giorno.
Insomma, l’impressione è che si sia andati incontro a un vero e proprio caso di isteria collettiva: i Radiohead non sono più, per l’ascoltatore medio di rock e dintorni, un “semplice” gruppo musicale. Assomigliano più a una fede, a un credo, a un feticcio al quale dedicare tempo ed energie. In una contemporaneità che, anche per via dei modelli di produzione e distribuzione, ha praticamente messo al bando l’idolatria rock, i Radiohead rappresentano una singolare anomalia: non solo perché, per l’appunto, sembrano essere stati in grado – loro malgrado, probabilmente – di crearsi un vero e proprio esercito di fedeli pronti a seguirli in ogni dove, ma soprattutto perché il loro agire “di massa” è sempre stato distinguibile per il suo retrogusto squisitamente intellettuale, lontano da mode – spesso e volentieri anticipate – e comodità. Ma torniamo a “In Rainbows”: in un attacco improvviso di ritrosia e lentezza, ho preferito che il resto del mondo si affannasse a scrivere e a gettare in pasto al pubblico il proprio punto di vista fresco di ascolto, scegliendo per contrasto di lasciar sedimentare le musiche di questo lavoro; un’iniziativa che rivendico, a distanza di dieci giorni, con forza, perché a mio parere l’ascolto apparentemente fin troppo facile del lavoro rischia di prendere le sembianze del più classico dei boomerang.
Sapendo di andare incontro a ogni tipo possibile di reazione, affermo che “In Rainbows” è un gran bell’album; un capolavoro? No. Una delusione? No, assolutamente. Già la sola idea che si debba essere costretti a scegliere tra due ipotesi così distanti e antitetiche mi appare francamente ridicola, e non ne faccio mistero. Mi si dirà che i Radiohead i loro capolavori li hanno oramai già scritti e che non hanno più niente da aggiungere al pezzettino di storia del rock che si sono ritagliati nel corso degli anni; ma questo è vero solo in parte, per l’esattezza la prima. Certo, “Kid A” e “Amnesiac” sono mondi a parte, stelle danzanti di nietzschiana memoria generate da quel caos interiore che attraversò la musica pop inglese degli anni novanta mietendo fin troppe vittime. I Radiohead ne uscirono con forza, incidendo il futuro nel presente con una naturalezza tale da sbalordire ancora a distanza di sette anni. Qualora non si fosse capito, “In Rainbows” non è un’opera futuribile, aliena e sconvolgente: è il ritratto, peraltro pacificato (e questo, soprattutto a ridosso del lavoro solista di Yorke, è un punto che andrebbe considerato con particolare interesse), della parte d’anima più puramente pop che da sempre fa parte del codice genetico di questi cinque musicisti.
Le scorie elettroniche che avevano marchiato a fuoco il “suono radiohead” sono relegate a pochi, bizzarri momenti (l’apertura dedicata alla fluidità di “15 Step”, tanto per essere chiari, dove comunque ben presto si fanno largo le oramai celeberrime accordature in minore, tanto che pare di assistere a una versione vagamente ansiogena di “Talk Show Host”), mentre ben più spesso si fa largo l’acustica, con una regolarità che non si aveva modo di incontrare dai tempi oramai vetusti di “The Bends”. Ma anche in questo caso c’è da stare molto attenti: se è vero, come qualcuno ha scritto, che sembra di assistere a delle outtakes dell’epoca “OK Computer” – e dopotutto l’elegiaca e riverberata “Nude” arriva diritta diritta da lì, essendo già conosciuta al popolo dei radioheadiani come “Big Ideas” -, è altrettanto vero che è fin troppo semplice ridurre il tutto a un semplice ritorno sui propri passi.
Anche l’uso di chitarre, nettamente superiore a quello degli album direttamente precedenti, non simboleggia di fatto un ritorno all’immediatezza dei primissimi lavori: “In Rainbows” sembra semmai possedere il dono di mostrare al proprio uditorio nel medesimo tempo il potere messianico della propria musica (la già citata “Nude”, quella “Faust Arp” che sembra essere uscita dal tenero cervello del Nick Drake di “Bryter Layter”) e una ritrovata indole alla spensieratezza, al gioco privo di paletti intellettuali. È con questa lettura che si può, a mio parere, comprendere il senso di brani come “Bodysnatchers” e “House of Cards”. Ma cos’è, a conti fatti, che permette a questi elementi di sposarsi senza far trasparire alcuna artificiosità? L’idea, forte e rassicurante, che i Radiohead, a distanza di quindici anni dal loro esordio, abbiano ancora la capacità di ragionare come gruppo. Non siamo di fronte ai fin troppo noti casi di supergruppi separati in casa e costretti a convivere per dovere contrattuale. Anzi, quel contratto che avrebbe rischiato di trasformarsi in capestro, Yorke, i due Greenwood, Selway e O’Brian, hanno pensato bene di stracciarlo, portando via dalla casa madre EMI i loro cervelli: una dimostrazione di coerenza e inadattabilità al mainstream musicale che si fa anno dopo anno sempre più palese e materiale. Tra convulsioni di basso, tracimare di chitarre (elettriche e acustiche), i tempi spezzati di una batteria che non ha mai accettato il semplice ruolo di comprimaria, e una voce che continua a non strafare anche quando ne avrebbe francamente acquisito il diritto, il suono di “In Rainbows” si infittisce di archi, sovrastrutture orchestrali, in una fantasmagoria che se da un lato accentua il sentore di ricerca della pace e dell’armonia dall’altro rischia di stordire l’ascoltatore, facendolo cadere nell’inghippo di aver assistito alla danza minore di un pavone troppo abituato a essere ammirato.
Qualora foste tra questi detrattori, credo che l’arma migliore per ricredervi sia quello di arrivare alla traccia numero dieci, quella che chiude “In Rainbows” e lo regala al mondo: un pianoforte reiterato sul quale si fanno largo gli strumenti e le voci. In 4’ e 39’’ la quintessenza dei Radiohead, dagli esordi a oggi. E forse a domani: anche se i radioheadiani di stretta osservanza già si staranno interrogando su quelle battute finali, quelle frasi che affermano, tra il tragico e l’estatico
This is my way of saying goodbye
Because I can’t do it face to face
I’m talking to you after it’s too late
From my videotape
No matter what happens now
You shouldn’t be afraid
Because I know today has been the most perfect day I’ve ever seen.
Poi tutto, come nel più nitido degli arcobaleni, dissolve senza lasciare traccia…
(Raffaele Meale)
22 ottobre 2007