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“Klaatu barada nikto”. Chi li fermerà più, i Portishead? Resuscitati dopo 11 anni quando nessuno ci avrebbe scommesso un cent, il gruppo di Bristol si presenta oggi come un Hal-9000 che non ne vuole sapere di spegnersi e grida nuovamente se stesso in un modo lucido, teso, vibrante, per confermare tutto ciò che ha rappresentato nella scorsa decade senza tentennamenti, con una profondità tale da far temere in una sua nuova implosione. E per farlo gli androidi Beth Gibbons e Geoff Barrow partono incredibilmente da tutto ciò che è primitivo, primordiale, tribale. E’ come fare istantaneamente un tuffo nel futuro e contemporaneamente nel passato, nella notte dei tempi, nelle paure ancestrali: il cantanto della Gibbons rimane preghiera obliqua, dolorante, ma questa volta è come se dovesse evocare spiriti della natura mentre i riff si fanno ossessivi (“Small”, “We Carry On”), mai domi, accompagnati da chitarre elettriche tentacolari (“Nylon Smile”) o acustiche dal suono occulto (“The Rip”).
Con una protervia da messia illuminati il gruppo di Bristol esplora crateri lunari che altri hanno paura a calpestare (“Machine Gun”) o comunque li scruta come dietro ad un vetro di un’astronave fantasma (“Hunter”), limitando ad un paio gli episodi più latamente trip-hop (“Plastic”, “Threads”) senza alcuna ansia di reprise di quel suono, peraltro. I Portishead insomma dicono le stesse cose di dieci anni fa ma le dicono con un linguaggio diverso, e dovendo parlare una lingua attuale scelgono di immergersi ancora di più all’interno delle proprie insicurezze e tornare dunque ai suoni primigeni, basici. Viaggi astrofisici notturni, come se un uomo di Neanderthal sognasse pecore elettriche. Viaggi tremendamente fascinosi.
Chi li fermerà più, dicevamo. Speriamo – ardentemente – non si fermino da soli, sopraffatti da cotanta discesa nelle loro, e nostre, paure.
(Paolo Bardelli)