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I Coldplay sono alla frutta.
Era questa la prima impressione, umana e unanime, di riflesso alle prime anticipazioni sulla nuova fatica in studio del quartetto londinese. Una voce dal timbro più basso. Registrazioni nelle chiese. Registrazioni in America Latina. Registrazioni a Barcellona. Un titolo come “Viva La Vida” che, pur non avendo nulla da spartire con Martin (da intendersi come Ricky, non come il marito di Gwyneth Paltrow) è stato allungato in seguito con l’aggiunta di “…and Death and All His Friends”. Scritta in bianco vernice che fa quasi male agli occhi per come campeggia in bianco sul celebre “La libertà che guida il popolo” di Delacroix, inspiegabilmente preferito, cattivo gusto per cattivo gusto, al dipinto pieno di cocomeri della simbolista messicana Frida Kahlo da cui l’album ha tratto il famigerato titolo.
Come se non bastasse, la coproduzione di Brian Eno, sul cui nome ci sarebbe obiettivamente poco da discutere se non si prendessero in considerazione gli album degli ultimi vent’anni su cui abbia messo mano il Musicista-Non-Musicista più influente del secolo. Praticamente tutti quelli venuti dopo “The Joshua Tree” degli U2. Ed è con la sigla U2 che il cerchio si chiude. Perché i Coldplay dopo aver scritto uno degli ultimi atti credibili del panorama brit – “Parachutes” – si sono pericolosamente u2-izzati rischiando di convertirsi al bonismo vero e proprio (che in questo caso non coincide necessariamente con buonismo) dei due successivi lavori, malgrado l’ultimo in ordine tempo (“X&Y”) avesse palesato una gamma di influenze più ampia e meno easy listening del predecessore.
L’U2-emia, una volta contratta, non va via facilmente. Probabilmente solo i Radiohead se ne sono immunizzati del tutto dopo un blando contagio giovanile. Per il resto quasi tutti, una volta entratici a contatto, ne sono rimasti segnati, né la presenza del fido collaboratore degli irlandesi – la visionaria e algida introduzione strumentale pare scritta da lui, non solo per il titolo dal gusto elettronico, “Life In Technicolor” – può dirsi incoraggiante.
Eppure, miracolosamente, salvo qualche sprazzo, la contaminazione massiva è scongiurata.
Passi pure una “Cemeteries Of London” con il suo incedere che pare venuto fuori da “The Unforgettable Fire” pur presentando alla lunga un’atmosfera sinistra, come se “House Of Rising Sun” fosse riletta in una cavalcata alla Echo & the Bunnymen.
Passi la solennità baldanzosa di “Lost”, ideale sottofondo per un documentario di Bono sul Darfur per come percussioni afro e un clap sintetico si adagiano su un tappeto di hammond e i fendenti riverberosi alla The Edge rievocati da Buckland alla chitarra.
E passi, meno indolore, la zuccherata “Lovers In Japan / Reign Of Love” con quella sua prima parte i cui rimandi non hanno bisogno di essere descritti, pur sfociando, nel secondo atto della traccia, in una ballatona soul di tutt’altro taglio.
Altra caratteristica, infatti, di questa piccola rivoluzione francese in casa-Coldplay è la scelta di inserire in tre delle dieci tracce un’hidden track che stacca quasi del tutto con le sonorità della canzone vera e propria cui segue.
Oltre all’appena citata, spicca quella conclusiva (“The Escapist”), reprise cantata dell’introduzione che emerge dalla sfarzosa “Death And All His Friends”, inizio alla Coldplay che dopo il cambio di tempo degenera in una disturbante deriva rococò di soluzioni barocche in odor di Genesis.
E spicca soprattutto quella di “Yes”, il brano migliore della raccolta con quei violini beatlesiani che aprono la strada a una ruvida nenia modernista alla Radiohead tra controtempi, viole perverse e svisate orientaleggianti con la voce di Martin insolitamente scazzata, e veramente cupa. La ghost-track denominata “Chinese Sleep Chant” è un sorprendente (aggettivo che accostato ai Coldplay dovrebbe far innalzare inni di gioia) tributo alle eteree fughe verso il nulla dei My Bloody Valentine, per i quali i quattro non hanno mai nascosto un’ammirazione già emersa in “X&Y”, con tanto di voce distante e malata, distorsioni e chitarre taglienti.
Ma non bisogna farsi ingannare da tale tendenza laddove il brusco cambio di atmosfera non è frutto di uno spezzettamento in due della track. Si ascolti “42”, vellutata ballad alla McCartney che approda verso lidi-Radiohead (che continuano a giocarsi con gli U2 il titolo di patrocinio sui Coldplay) in quella ritmica secca e ossessiva cavalcata da chitarre corpose e ubriacanti che si arrotolano e si scontrano fino alla virata finale in uno scanzonato rock’n’roll che sa di una “Barely Legal” degli Strokes semi-acustica.
Tracce doppie. Doppio titolo. E ovviamente doppia titletrack. In “Viva La Vida”, però, se la cavano molto meglio rispetto a “Death And All His Friends” dando un tocco sinfonico alle intuizioni più teatrali e drammatiche di Morrissey attraverso un ricchissimo accompagnamento orchestrale.
E se in “Strawberry Swing”, sarà forse l’associazione mentale con “Strawberry Fields” che sorge spontanea, i rimandi beatlesiani passano in secondo piano per il peculiare cantato di Martin che continua a rendere inconfondibili i Coldplay, i suddetti rimandi emergono nella cantilena molto Lennon del buon singolo “Violet Hill”. Piano vivace, stacchi elettrici pomposi ed elegantemente cafoni che si fanno da parte solo dopo l’assolaccio per lasciare spazio a uno di quei momenti che solo loro in cui Chris chinando la testa sul pianoforte con quello sguardo dolente e sofferto si autoproclama portavoce delle delusioni quotidiane e dei problemi esistenziali di tutti gli sfigati d’Inghilterra.
La libertà espressiva che guida i Coldplay, insomma.
Ma attenzione, rivoluzionari, l’impero è sempre in agguato e indossa inconfondibili occhiali scuri Armani.