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Ecco un disco molto atteso dal pubblico indie. A realizzarlo un giovanissimo quintetto oxfordiano sotto la guida del carismatico cantante e chitarrista Yannis Philippakis (evidenti origini elleniche per lui). L’album, intitolato “Antidotes”, ha già ottenuto un apprezzabile e del tutto inaspettato successo di classifica in madrepatria e si appresta ora a colonizzare le menti più volubili del resto d’Europa (e magari America, non si può mai dire).
Il gruppo è stato rapidamente inserito dalla stampa britannica nel correntone new rave, a ridosso dei pluripremiati Klaxons (chi mai avrebbe potuto immaginare un successo di quelle dimensioni…), al fianco degli scozzesi (e pessimi) Shitdisco e di altre realtà più o meno limitrofe, come New Young Pony Club, Simian Mobile Disco, Hot Chip, Digitalism (ma già altre energie fresche stanno arrivando e portano i roboanti nomi di Hadouken!, Does it offend You, Yeah?, Friendly Fires, Lates Of The Pier e Crystal Castles, andate a farvi un giro sui rispettivi myspace, se vi va di scoprire in anticipo di cosa parleremo e cosa ascolteremo fra un paio di mesi…). In realtà il discorso non è così semplice, perché questi Foals si caratterizzano per una certa originalità e autonomia rispetto alla tendenze sonore attualmente imperanti, realizzando un lavoro tutt’altro che passeggero e dotato di una sua complessità compositiva, in alcuni frangenti addirittura notevole, soprattutto se a proporla è un gruppo all’esordio e con un retroterra fondamentalmente “pop”. A questo proposito giova ricordare che il disco in questione ha avuto in realtà una genesi piuttosto travagliata e la band è arrivata in pratica a cestinare una prima versione del lavoro prodotta da Dave Sitek di nientemeno che i Tv On The Radio, se abbiamo capito bene (l’uomo che tra l’altro ha messo le mani sull’esordio discografico prossimo venturo di Scarlett Johanson, questo non dimentichiamolo).
L’iniziale “The French Open” mette subito in chiaro le cose in maniera inequivocabile: scheletrici esercizi ritmici costruiti su iterazioni di basso e batteria dall’andamento prima ipnotico, poi psicotico e infine apertamente jazzistico-fusionale, come se i Primal Scream si mettessero a rielaborare e destrutturate in chiave minimalista uno scorcio ritmico rubato di contrabbando ai Funkadelic. Simili aggrovigliati percorsi associativi di idee ritornano a farsi vivi al cospetto della cantilena catatonica “Red Sock Pugie”: quello che colpisce è il fatto che questi ragazzi si divertano molto di più a smontare pezzo per pezzo il giocattolo che hanno tra le mani, piuttosto che goderselo nella sua innocua superficialità e questo non può non suscitare curiosità nell’ascoltatore più smaliziato. Non propriamente il genere di cose che ti aspetteresti di vedere a condividere le innevate cime delle classifiche con la pur degna Duffy, ma tant’è, miracoli dell’era postmoderna.
Non mancano ad ogni modo numeri più pop, per quanto straniti e vagamente “fuori asse” rispetto ai canoni (i Devo di “Cassius” o “Electric Bloom”) ma il sentore complessivo è quello di una versione meno stratificata e blaterante dei Battles (“Baloons” potrebbe tranquillamente camuffarsi da intermezzo strumentale di “Mirrored” e nessuno sarebbe in grado di identificarlo), a riprova di una voglia di rinnovamento e “crescita” da parte di ampi e significativi settori del sottomondo indie che si vanno ogni giorno sempre più stretti e cercano di aspirare un po’ d’aria fresca ricorrendo a strutture e stratagemmi formali più raffinati e meno prevedibili. “Heavy Weather” poi è in tutta onestà un mantra bellissimo (lo stesso si potrebbe dire per “Two Steps, Twice”), che sembra non cambiare mai e forse effettivamente non cambia mai, benedetto da un’apatia funerea degna dei più spenti Joy Divison o dei Liars più gotico-catacombali, perché l’allegria ormai è così sdoganata da divenire spesso un urticante luogo comune ed è giusto che qualcuno si adoperi con ostinazione per smorzarla a colpi di tastierine mandate in loop senza fine (“Big Big Love”, possibile hit per una discoteca antartica dai movimenti quasi impercettibili).
Un disco decisamente da ascoltare, per una band nel complesso più arguta e irrequieta rispetto alla media a cui ci siamo ultimamente assuefatti. Il talento per salvarsi dall’esposizione mediatica di cui godono ora (e che presto svanirà) non manca, questo è certo.