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Non sono in grado di dire se Samuel Katarro saprà indossare senza fastidio il soffocante vestito da The next big thing che in molti gli stanno già cucendo addosso con cura meticolosa. Certo è che il vorticoso ronzio che aleggia nel cervello dopo aver ascoltato il suo primo lavoro è un vitale segno di freschezza che fa (molto) ben sperare.
Dimenticatevi i tronfi reverendi neri e gli stropicciati messaggeri della musica del diavolo, lasciateli galleggiare a vuoto nel loro brodo primordiale. Per avvicinarsi al lavoro di Samuel Katarro basta molto meno: socchiudere gli occhi e lasciarsi trasportare senza opporre alcuna resistenza attraverso i lisergici paesaggi partoriti da una mente certamente fantasiosa e affascinante.
“Beach Party” è il trionfo della distorsione, da buttare giù tutto d’un fiato, fino a rimanerne storditi: distorsioni sonore, che caratterizzano il suo personale approccio alla chitarra, strapazzata senza alcuna pietà, quasi a volerne estirpare l’anima gracchiante, distorsioni dialettiche, che si incuneano tra le righe dei suoi testi allucinati, distorsioni vocali, che derivano dal suo personale stile di cantare (un perenne falsetto che produce deliranti visioni di un Billy Idol sull’orlo del collasso psichico) e infine distorsioni cerebrali, che danno bello sfoggio di sè tra le pieghe delle tante contraddizioni che animano questa fascinosa proposta artistica e proprio per questo la rendono capace di emettere bagliori del tutto particolari.
E allora sfido chiunque a dirmi quanto spessore artistico ci si sarebbe potuti attendere da un ragazzetto poco più che ventenne che si fa chiamare “Samuel Katarro” e che cita come suo gruppo musicale preferito nientemeno che i Beach Boys ed inoltre, come se non bastasse, intitola pure il suo disco d’esordio “Beach Party”.
Ebbene signori, posso affermare con tutta franchezza che mai come adesso avreste sputato le vostre sentenze invano: “Beach Party” è cento per cento anima e zero plastica, blues fino alle radici, marcio fin quasi a sentirne l’aberrante puzza di cadavere. Ascoltarlo è come farsi il segno della croce con l’acqua ragia: corrode l’anima e brucia la pelle, fino all’ultimo tendine, senza alcuna possibilità di scampo.
Samuel Katarro colpisce a fondo perché gioca in piena libertà con la sua fantasia e con le sue visioni deliranti, senza vincolarsi con inutili sigilli che limiterebbero di gran lunga la sua debordante vena artistica: le sue canzoni si rivelano scarne, essenziali, quasi “naif” e pur non essendo figlie di un approccio lineare e dai contorni ben definiti, riescono a liberare un fragoroso inno alla spontaneità.
“Beach Party” è un armadio pieno zeppo di scheletri che non ne possono più di starsene là dentro, zitti e senza dare fastidio, ed hanno deciso di uscire allo scoperto all’improvviso, uno ad uno, facendo schioccare paurosamente tutte le loro ossa all’unisono.
Ci si trova così intrappolati in mezzo a deserti paludosi, con il fango che arriva ben sopra le caviglie (“From Texarkana to Texarcana”), in compagnia di malati terminali che fanno sentire la loro stridula voce con delirante ironia (“Terminally Illness Blues”), impauriti dalle allucinanti visioni di un’apocalisse che verrà (“Wiched Child”) ed incuriositi da uomini che ancora credono di poter sparare alla luna, in un pazzesco crocevia dove si incontrano e scontrano, senza ferirsi, flamenco e blues (“The moonlight murders psychedelic band”). C’è anche il tempo per una gustosa leccata psichedelica con tanto di retrogusto blues (“There’s a lady inside a cabin”) ed un morso più consistente a contenuti lisergici più puri (“Headache”), ma si tratta solo di piccoli assaggi e siamo già arrivati ai titoli di coda, suggellati in modo impeccabile dalla gemma grezza “Beach Party”, chiamata con successo a scaldare i nostri cuori, ormai intorpiditi dai gelidi venti invernali e dalle troppe atmosfere claustrofobiche e surreali.
Proprio quando ci domandavamo dove fosse finita la nuova generazione, sempre persa nell’affannosa ricerca di una vera e propria anima, a rovistare dentro ai magici scatoloni pieni zeppi di falsi miti creati subdolamente da MTV e sballottata senza sosta tra i fuochi fatui delle Play-Station e le inutili domande degli avvilenti Talk-Show televisivi, ecco che spunta dal nulla Samuel Katarro con tutta la sua esuberante voglia di raccontare e di fantasticare su una realtà che non lascia altro scampo e che ad oggi risulta miseramente non pervenuta, sempre più vicina ai lineamenti di un decadente medioevo tecnologico.
Vi prego, non chiamatelo “The next big thing”, lasciategli almeno il tempo di proseguire con calma il suo percorso solitario lungo la sua personalissima cattiva strada, a tentare di smussare gli spigoli più invadenti della fragile pepita grezza che si è ritrovato improvvisamente tra le mani: chissà se riuscirà a tirarne fuori oro zecchino.
(Massimiliano Locandro)