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La premiata ditta Mai, Pupillo, Battaglia dimostra di non essere minimamente intimorita dagli attestati di stima che scendono a pioggia su di loro ormai da anni e assestano un colpo in grado di far tremare più di una certezza. Come quella, ad esempio, che vuole i nostri raggomitolati in un labirinto free form senza uscita. Oppure quella secondo cui in Italia non si possa fare musica di livello internazionale, vuoi per mancanza di coraggio e capacità, vuoi per la latitanza di un pubblico aperto.
Oppure che un disco registrato in questa penisola non possa suonare così bene. È qui che interviene la più importante delle complicità criminali di cui si macchia il trio romano (non ce ne vogliano King Buzzo e Mike Patton): parliamo di Giulio Favero, ormai faro di tutto quanto in Italia voglia suonare pesante e interessante, che batte a mani basse gente come Weston e Albini, precedentemente impegnati a fissare su nastro l’evoluzione degli Zu.
A onor del vero, comunque, questi ultimi, sacrificano l’attitudine più libera delle prove precedenti per costruire pietra su pietra un album incredibilmente oscuro e dinamico, fondato su concatenazioni matematiche che li collocano ormai tra Meshuggah e Battles. Sentite ad esempio la traccia d’apertura, “Ostia”. Mentre cominciate a chiedervi se i nostri vogliano riferirsi agli scavi archeologici oppure al trafficato lungomare stile-Lucignolo, comincia a fluire un Magma (non a caso) sonico e plumbeo ai limiti del danzereccio, tra bastonate metalliche e suoni cristallini. In sostanza quello che ai Chrome Hoof, dopo le splendide promesse programmatiche, non è riuscito di mantenere. Praticamente una nuova “Atlas”, lanciata però su un binario da miniera diretto al centro della Terra.
Poi c’è molto altro. Il mammuth metallico di “Chtonian”, con Buzzo che guida un rituale primitivo grasso e sanguinario con sciabordii alla Neurosis. “Carbon”, pseudo-jazz psichiatrico. Il groove di “Beata Viscera”. “Erinys” con Satana e Coltrane che si sfidano a singolar tenzone. In “Soulympics” Patton fa il Patton che ti aspetti, ma l’amalgama funziona decisamente meglio di quanto non si sia sentito dal vivo qualche mese fa. Da qui in poi il monolite prende il decollo, inutile seguirlo traccia per traccia, conviene aggrapparsi forte e lasciarsi condurre tra strattoni, accelerazioni e solenni celebrazioni cosmiche (“Obsidian”) in un viaggio straordinariamente coeso, pesante, fruibile, senza precedenti (non solo in Italia).
Tanto ci scommetto che il prossimo tabellone del Gods Of Metal metterà ai primi posti imparruccati che non tirano fuori un album decoroso da due decenni almeno. Ma non dubitate, gli Zu questa volta raccoglieranno tutto quello che si meritano e speriamo che aprano porte che dopo il passaggio di Negazione, Indigesti, Raw Power sono rimaste sbarrate a lungo. E se Favero è in questo stato di grazia, mi lecco i baffi a pensare cosa possa tirare fuori prossimamente il Teatro degli Orrori.
Non mancheranno germanofili vestiti di verde a sottolineare l’apporto del produttore veneto, ma noi lo diciamo lo stesso: questa volta sì che Roma è capitale.