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Dopo una serie di partecipazioni a compilation cittadine e un singolo, “Hunted Down”, i Soundgarden entrano in studio con un produttore il cui nome, Jack Endino, circolerà presto associato a quello della piccola etichetta nata da poco. Entrambe le parti in gioco, libere da qualunque restrizione e vogliose di dimostrare quanto riescono a fare, tirano fuori il meglio. Endino confeziona un suono cupo e grasso, come un Martin Hannet sepolto nel fango, mentre i Garden si costruiscono una personalità indipendente esplorando con ogni brano un territorio diverso. Il suono si muove tra campi magnetici contrastanti, conteso sia da pesanti vertenze hard che da mefitiche implicazioni dark, con violente esplosioni psichedeliche e deliranti accelerazioni hardcore.
Così la prima traccia, proprio “Hunted Down”, suona stranamente garage e abissale e comincia a farcisi strada un’impronta che farebbe pensare addirittura ai primi Christian Death, tanto nel tono della chitarra che nella disperazione della voce. Subito dopo, “Entering” è la prima prova veramente rocciosa dei quattro, una sorta di dub circolare che degenera in spirali acidissime con Plant… ehm, no, scusate, con Cornell che comincia a sgranchirsi aspramente l’ugola. In sostanza, già uno dei brani migliori di tutta la discografia, con una sessione ritmica fenomenale e convulsa e la chitarra lasciata libera di tracciare sentieri psichedelici imperiosi. “Tears To Forget”, immediatamente dopo, rilancia i quattro in un tunnel hardcore sghembo e minaccioso gettando un seme degenere che avrà seguito nel corso della carriera.
Altro apice assoluto, “Nothing To Say” è la migliore summa del primo Garden Sound, una sepolcrale e testosteronica trance psichedelica esattamente a metà tra “Masters of Reality” e “Unknown Pleasures” (e qui Cornell è già definitivamente Cornell).
Chiarite le carte in tavola, c’è ancora tempo per le sorprese: in “Little Joe” ci sono i P.I.L. persi tra templi Indù e paludi, mentre “Hand of God” è un sermone sezionato su un tavolo di marmo usando fendenti di chitarra e martoriato con continue percosse di batteria. A proposito, nessuno dei quattro sfigura minimamente e l’amalgama è compattissimo, ma segnaliamo che Cameron suona già incredibilmente bene, come uno che già nell’utero di sua madre doveva saper battere a tempo le mani sulle ginocchia. Si chiude così uno straordinario Ep d’esordio e non ce ne vengono in mente molti altri che già agli inizi hanno avuto una tale potenza visionaria (forse i Verve).
È l’ ’87, i Melvins sono ancora un’oscura e informe entità, Cobain è ancora un adolescentello come molti, i Mother Love Bone forse si rendono conto che non diventeranno mai i Guns’n’Roses. Solo i Mudhoney stanno facendo parlare di sé, ma intanto i Soundgarden hanno gettato le basi che consentiranno loro in pochi mesi di pubblicare per SST e A&M.
C’è solo da accomiatarsi con gli amici della Sub Pop. I nostri lo fanno l’anno dopo con un altro breve Ep intitolato “Fopp”, prodotto da Steve Fisk, per il quale non devono essersi impegnati molto, risparmiando le cartucce migliori per dopo. Si apre con l’unico pezzo originale, il punk-garage di “Kingdome of Come”, se non cestinabile, nemmeno fondamentale. Poi la prima cover, “Swallow My Pride” dei Green River, esecuzione tipo buona-la-prima, ma gran bel pezzo garage per cui non ci si lamenta. Con “Fopp”, degli Ohio Players, tornano a stupire con un funky classico che stranamente va a loro agio, Cornell che alterna un tono nero e roco con decolli snelli e perentori. In finale anche un sax, ma col tempo ci si abituerà a sorprese del genere. L’Ep si chiude di nuovo con “Fopp” in versione dub, pronta per le piste da ballo.
Insomma, abbiamo parlato di punk, garage, wave, dark, hard, funky, dub e nessuno ha ancora usato una certa parolina che nell’ ’88 sta per diventare molto popolare…
I due EP si trovano oggi riuniti in un unico cd.