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Ci sono concerti che sembrano creare spartiacque. Come quello dei Ringo Deathstarr al Mattatoio di Carpi, domenica 27 febbraio. Prima era l’altro decennio, ora è questo. C’eravamo sbilanciati sulla band di Austin buttando lì, a fine dicembre, che avrebbero fatto sfracelli in questo 2011, e possiamo confermare. E’ solo che avevamo cannato i riferimenti: qui non si tratta della frivolezza malinconica dei The Pains Of Being Pure At Heart, perché le distorsioni mastodontiche e i volumi stratosferici delle chitarre di Elliot Frazier, le voci sommerse e quasi subliminali dello stesso Elliott e della valchiria Alex Gehring, le batterie maltrattate di Daniel Coborn riportano i Ringo Deathstarr verso un combinozzo di rock distorsivo che apre, decisamente, questo decennio.
E lo apre tornando indietro, as usual, in un periodo ben definito: noi abbiamo appuntato gli anni che vanno dal 1991 al 1993. Per tanti versi le sonorità dei texani provengono da lì, da “Wish” dei Cure, dall’acid-pop degli An Emotional Fish di “Junk Puppets”, dal menefreghismo punk dei Nirvana, dai charleston sui sedicesimi dei primi Blur, finanche da quella “Sadeness” (!) degli Enigma (correva l’anno 1990) che – non sappiamo fino a quanto casualmente – ha fatto capolino come ultima canzone del djset prima del concerto dei Nostri.
Strano che una musica del genere provenga da ragazzi dell’89, o forse è proprio naturale. Quello che ci fa però far dire che abbiamo svoltato decennio è la sensazione che i punti di riferimenti siano cambiati, focalizzando le attenzioni ai Nineties (basta Eighties!), come ha scritto anche Stefano Solaro a proposito degli Yuck.
Non è ancora tempo per definire la musica dei Ringo Deathstarr, e non vorremmo bruciarla come shoegaze perché c’è dell’altro, molto altro. Ci mangeremo “Colour Trip” (Club Ac30, 2011), e poi ne riparleremo.
(Paolo Bardelli)
28 febbraio 2011