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La terra delle opportunità dopo Twin Shadow ha un altro testimone, sull’onda lunga della summer of love ipnagogica (o meglio, without love) del 2009. Quando la cosiddetta chill wave ha stanato dall’underground sfigati quanto originali figuri del calibro di Washed Out, Memory Tapes, Small Black e soprattutto Neon Indian, fresco di illustre collaborazione coi Flaming Lips. Sociofobici personaggi il cui destino improvvisamente si incrocia con i nuovi trend musicali della East Coast. Dal Massachussetts fino al South Carolina, il synth-pop filtrato da perfide cacofonie lo-fi in sfondi dreamy, è diventato uno dei generi più smaccatamente cool della scena indipendente statunitense.
E dopo un tentativo promettente con l’acerbo “Causers Of This”, anche Toro Y Moi ci riprova dopo solo un anno. Con risultati certamente più proficui. Chazwick Bundick è un venticinquenne afro-americano per metà originario delle Filippine. Un passato al college in band indie-rock nella città dei Band Of Horses, Columbia, South Carolina. Poi la laurea in grafic design e l’incontro decisivo con Ernest Greene. Il più noto come Washed Out gli fa da mentore. Così arriva subito il primo contratto discografico. Con l’eclettica Carpark Records di Washington DC (Beach House, Dan Deacon, Cloud Nothings, Takagi Masakatsu).
Non inganni l’atmosfera festaiola e funky di “New Beat”. Toro Y Moi non ha subito indirettamente le influenze malevole di Ariel Pink’s Haunted Graffiti di “Before Today” che nel suo esaltante calderone dada, tra mille altre cose ha iniettato atmosfere care a questo filone chill.
Il giovane Bundick ha ripudiato ogni filiazione. Lui, ha ammesso, in spiaggia ci va a stento una volta l’anno. A dispetto dell’acronimo molto da macho latino e dell’estrazione per così dire insulare delle sue origini. L’happy hour si riduce esclusivamente a un’altra breve parentesi da potenziale dancefloor, “Still Sound”. In cui tutto suona come se gli Hercules & Love Affairs invitassero a un loro festino Memory Tapes. “I don’t want to be alone”, recita piuttosto beffardamente nel testo.
Toro Y Moi, infatti un po’ come Alan Palomo aka Neon Indian, preferisce rinchiudersi in se stesso in sofisticati sottofondi a metà strada tra le suggestioni ambientali dell’esordio e colonna sonora da film erotico francese anni Settanta (“Divina”, “Good Hold” e la ballad strappalacrime “Before I’m Done”). I richiami agli Air e agli Stereolab sono dietro l’angolo.
La voce disillusa di Chaz, pur slavata e monocorde, giostra bene tra rhodes, basi, orchestrazioni sintetiche, mid-tempo e post-romanticismi da smanettoni 2.0. In “Light Black” i Liars centrifugano Washed Out in un jingle da poliziottesco. Gusto poliziottesco che finisce per scrollarsi di dosso qualche spora avanguardista nelle lane beat di “Elise”. Non disdegna affatto i Sixties, il taciturno Bundick. “How I Know” sembra un outtake tra gli ultimi MGMT e Panda Bear. Una centrifuga impietosa e impredevibile direttamente dal Deep South. Falsetti, psichedelia, Studio 54, armonizzazioni vocali, spy movie, i Broadcast, gli Zombies. “Underneath The Pine” sarebbe tutto e il contrario di tutto, senza un’omogeneità negli arrangiamenti da vero veterano.
Fissare come in ipnosi la controversa copertina-autoritratto da art-designer hipster durante i tre minuti dell’ottima “Got Blinded” aiuta a cogliere lo spirito dell’album. E aiuta più di mille ulteriori presentazioni e descrizioni.
80/100
(Piero Merola)
22 aprile 2011