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Ovvero un disco importante su cui ritornare, appunto, a mente fredda. E’ la volta dell’ultimo dei Fleet Foxes.
No, la mente non si raffredda. Il cuore pompa sangue bollente ai piani alti.
Questi sono già nell’Olimpo del rock americano. Potrebbero fare già altro, dopo due dischi che racchiudono così tanti capolavori che neanche un’intera carriera…
Qualcun’altro forse ci aveva già provato a sintetizzare CSN&Y, Simon&Garfunkel, Beach Boys e una discreta fetta di folk rock britannico, ma ho qualche difficoltà a ricordare, forse l’età.
O forse perchè questi sono delle bestie rare, di quelle che quando le incontri non le scordi più.
(Max Cavassa)
A volte penso che i Foxes siano frutto di un esperimento genetico, non di quelli da film horror, ma un affare da giardiniere esperto: fai un innesto di West Coast, metti terriccio dalle Montagne Rocciose, taglia via i germogli psichedelici in eccesso per far crescere il fusto folk sano e robusto. È che sembrano quasi troppo bravi per essere veri, fatti per mettere d’accordo il ventenne sognatore con l’hippy dai capelli bianchi. Il raccolto per fortuna ha un sapore tutto naturale, e che sapore.
(Stefano Folegati)
Benché potessero replicare l’abum di debutto, composto da 11 luminose perle facilmente distinguibili ed immediatamente memorizzabili, i Fleet Foxes hanno invece preferito dare alle stampe un disco ambizioso e denso di contenuti che, tendendo verso una sorta di complessitá cosmica, abbaglia nel suo splendido isolamento.
(Stefano Solaro)
Silvia è una ragazza dolcissima, ma non ama(va) i Fleet Foxes. Io le sono amico e la nostra simbiosi tende a far si che un consiglio si tramuti in verità. Così mi persi quelle melodie che vanno da “Sun It Rises” a “Oliver
James” dall’omonimo lavoro. Poi girovagando per Londra vidi tappezzata la città del nuovo “Helplessness Blues”; lei in America non avrebbe potuto saperlo e così decisi di comperarne una copia. La verde Inghilterra per tre settimane si fece più dolce e io rimasi invischiato in antiche armonie capaci di soffiare nel vento. Quando ci rincontrammo lei mi disse che sarebbe andata al Primavera Sound. Anche per loro. Solo gli stupidi non cambiano idea. Solo gli amici vivono in simbiosi.
(Nicola Guerra)
Non essendo propriamente “il mio genere”, faticavo a trovare una collocazione temporale per l’ascolto di un album così intimo: di mattina? di pomeriggio? di sera? Poi me ne sono andato in vacanza, e ho scoperto che l’importante non è il quando, bensì il dove. Le splendide voci delle volpi sono nate apposta per essere vissute nella natura, immersi in sterminati paesaggi di prati e conifere. Perché “Helplessness Blues” rifugge dalle nostre città e dalle nostre occupazioni.
(Paolo Bardelli)
Un album che potrebbe essere scritto nel Basso Medioevo, nel 1971 come nel 2021.
Il viaggio sulla strada dei Fleet Foxes iniziato con l’intenso esordio si immerge in una realtà evanescente e senza tempo fatta di sortilegi, visioni estatiche e sogni fatali.
(Piero Merola)
La grandezza abbagliante di questo lavoro resta inalterata, alle mie orecchie, anche a distanza di mesi dalla sua uscita. Cosa colpisce dunque di “Helpnessness Blues”? I suoi principali difetti, direbbe qualcuno malignamente: la smisurata ambizione, la complessità aggrovigliata della architetture compositive, il tono enfatico, il misticismo naturale, il fatto che sia costato al gruppo quasi tre anni di furiose riscritture, che rechi i segni indelebili della vita che passa, corrode, strappa, illude e sempre, alla fine, inevitabilmente, stupisce. Per questo lo preferiamo alla singolarità bisbigliante e occlusa di Bon Iver, James Blake o degli ultimi Radiohead: per il coraggio di misurarsi con l’intensità dirompente di un’emozione positiva, così enorme da contenere dentro di sé anche il dolore più inaccettabile. Un disco che ha la forza di tenere gli occhi aperti.
(Francesco Giordani)
5 settembre 2011