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C’è un luogo suggestivo, lungo il Po, nella bassa reggiana, dove convivono baracchini con il tetto di paglia, sculture in legno di fattura africana, zanzare giganti, birre alzate in aria in eterni brindisi e il Grande Fiume, il Po, appunto. Nel momento in cui si mette sul lettore “Yes/Sun” viene in mente in maniera quasi automatica che gli Welcome Back Sailors vengono da lì e, allo stesso tempo, che invece suonano come se avessero un loft a Brooklyn.
C’è chi potrà semplicemente liquidare il tutto dando la colpa/merito alla globalizzazione, ok, ma stavolta non permettiamo di lasciare che si passi oltre così sui “nostri” profeti in patria. Gli Welcome Back Sailors sono un piccolo capolavoro di tempismo, uno dei pochi casi in cui qualcuno da noi in Italia è arrivato prima delle mode e tendenze di tutto il globo, senza volerlo o saperlo: semplicemente sentendo che era tempo per quell’attitudine. E come spiegare, se no, il boom di quest’estate di Washed Out? Il duo emiliano si era già fatto notare da tempo (vedi Caspiterina!) per la medesima indole: il tocco electro-pop nostalgico, le voci filtrate in lontananza, l’amore per il vintage scolorito, per gli Anni Ottanta filtrati con una lente deformata e riproposti in altra salsa ma con il medesimo profumo.
Alessio e Danilo sono impressionanti dal vivo, dove riescono nel quasi impossibile compito di rendere umanizzate le pulsioni sintetiche dei bit, e nel loro primo disco si danno questo ardito obiettivo riuscendoci in più punti e mettendo meno a fuoco il risultato in altri solo per mancanza di esperienza. Se infatti “A Fortune Teller Song” è un classico istantaneo, con uno stacco “distruttivo” nel finale che toglie ogni dubbio su una possibile, dato il genere tendente alla chill-out, leziosità degli W.B.S., canzoni come “Hero” o “Other Directions” sono capaci di traslarci direttamente in altri luoghi viaggiando come il Dottor Who nella vecchia cabina telefonica. Vi è un po’ di parentela con l’indie-pop scandinavo (vedi il riff di “Celebrating a Bright Mind”, con uno splendido finale di assoli incrociati di sax), con il kraut (“About Us”, peraltro pezzo non ispirato al massimo) e con il pop eighties degli arpeggiatori (“Inner Charm”), ma è quello che aleggia sulle tracce che è importante. E’ una sorta di resa incondizionata al fascino di quel suono che fu e che ora può essere solo ricreato in parte, tendendo ad esso senza mai raggiungerlo, e che per certi versi – allargando il discorso – rappresenta il nostro eterno e fallace tentativo di ritornare al nostro passato, a quello che abbiamo trascorso, a quello che abbiamo provato e che ora ci appare più bello, più degno di essere (ri)vissuto.
E’ una catarsi che non purifica ma che inevitabilmente ci attira, è il rimuginìo costante che ci riporta ai giorni indietro sciogliendone il ricordo in un informe bolla di sapone fascinosissima o quantomeno innocua, che oggi ci appare benevola solo perché il dolore è una prerogativa della realtà.
Gli Welcome Back Sailors, insomma, hanno saputo trascrivere in musica la frase finale de “Il Grande Gasby”, quella in cui tutti ci siamo riconosciuti e specchiati, cogliendone l’ineluttabilità. Ed è davvero un grande risultato.
« Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato. »
80/100
(Paolo Bardelli)
10 novembre 2011