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Non poteva esserci titolo migliore per descrivere in due parole il nuovo album dei Japandroids, tanto che potrei quasi chiuderla qui e lasciare che sia la musica a spiegare il perché. A pensarci bene, raccontare un disco simile sembra quasi del tutto superfluo se prendiamo per buona la prima affermazione: si tratterebbe di strafare, di aggiungere tasselli a una cornice già perfettamente attaccata al muro o, peggio, di dover per forza ricercare il commento ad effetto per non sentirsi completamente inutili. Il fatto è che, dinnanzi a questo lavoro, il consiglio più spassionato è semplicemente quello di lasciarlo andare dall’inizio alla fine, ché tanto c’è abbastanza carne che saprete giudicarla da voi. Io posso tutt’al più spiegare l’incipit di queste righe.
Se masticate il duo di Vancouver le coordinate vi saranno già chiare. Non spostano di molto il loro sguardo, eppure funzionano in maniera disarmante. Rock celebration, dicevamo. Nel frullatore di Brian e David c’è tutto quel che si può definire degno di tal nome: rullate cariche di sudore, riff accattivanti e valvole maltrattate, attacchi con un quid di epica, melodie e ritornelli che talvolta sfociano in cori da stadio. È vivo, vissuto e trasuda adrenalina, e il fatto che siano in due ti sbatte in faccia l’elementare considerazione che maneggiare rock è cosa davvero tanto semplice se sei bravo.
Uno due tre, sentite come s’inspessisce e decolla “Evil’s Sway”: inno generazionale. Quanto funzionano bene “Younger Us” e “Fire’s Highway”? Echi di Husker Du e chi volete voi. “The Nights of Wine and Roses”, fin troppo elementare individuare la citazione. “The House that Heaven Built” la saprete cantare al primo ascolto. L’unica che sembra fuori posto, non per come suona ma per la scrittura evidentemente differente dal resto, è la cover selvaggia di “For the Love of Ivy” dei Gun Club. Ma di fronte a tanta sostanza vuol proprio dire spaccare in due il capello. Visto che era meglio fermarsi al titolo?
70/100
(Daniele Boselli)
5 luglio 2012