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Sei album e la definitiva età adulta dei Liars. Dopo due album in cui la band si divideva tra anima concettuale e ludica, i tre sembrano abbandonare la seconda. Come già nei meandri più cupi di “Sisterworld”, le nebbie avvolgenti di uno dei capolavori indiscussi dello scorso decennio, “Drum’s Not Dead”, si sono riappropriate dei desolanti paesaggi di Angus Andrew, Aarom Hemphill e Julian Gross. Senza il bisogno di fuggire nuovamente a Berlino in cerca di suggestioni post-industriali. Ai tre è bastato rifugiarsi nello studio di Andrew, un mezzo tugurio in un’area poco raccomandabile da qualche parte lungo la 101. Senza necessariamente scomodare Elliott Smith, anche Los Angeles può dare spunto a capolavori di chiusura e alienazione. Più che mai viva in questa opera dall’affascinante titolo palindromo da pronunciare come “WISH YOU”. E da intendere, sempre secondo Andrew, come il ritorno al punto di partenza. Ineccepibile. Le spore chitarristiche e i drone di “Drum’s Not Dead” hanno il loro equivalente nella sperimentazione elettronica di questo sesto album. “The Exact Colour OF Doubt” sembra seguire idealmente il percorso che purtroppo i Radiohead hanno in parte abbandonato dopo “Amnesiac”. Così “His And Mine Sensations” suona davvero come si vorrebbe che suonassero Thom York e compagni.
Al pari dei due salmi funerei che spezzano il ritmo incalzante dell’album. “Ill Valley Prodiges” e “Who Is The Hunter” ridestano la maschera più spettrale dei Liars. Come se fossero veramente tornate le streghe. Quelle dell’altro must del collettivo di Brooklyn, l’esoterico “They Were Wrong, So We Drowned” (rievocato come un flashback nel sabba nu-rave di “Brats”). Con un maggiore equilibrio dettato dal ridimensionamento degli eccessi e più in generale dalla maturità compositiva del primo decennio di carriera.
Sempre centrale il gusto per l’estetica industriale da nipoti dei Throbbing Gristle. E quello per la sperimentazione tribale inaugurato nel borough creativo della Grande Mela dai Black Dice. E che segna tuttora molti generi in maniera trasversale. I Liars dalla loro hanno l’inconfondibile timbro luciferino di Andrew, sempre meno nervoso e tendenzialmente più umano nelle sue linee vocali. Che sia arrivata o no questa svolta cantautorale più volte prefigurata dai tre, i passaggi più spigolosi dei 43 minuti di “WIXIV” rendono altrettanta giustizia alla loro natura più sperimetale. “Octagon” è di un’intensità quasi agghiacciante. E per quanto possano suonare come minestre riscaldate, in “A Ring On Every Finger” e “Flood To Flood”, è invece la cura dei dettagli, sintetica, a stupire. Sempre più trasfigurazione contemporanea dei Cabaret Voltaire messi momentaneamente in soffitta gli isterismi funk.
Come gli arrangiamenti vagamente kraut possano rendere interessante una banale andatura in levare lo aveva già dimostrato il brano di lancio, “No.1 Against The Rush”. I synth d’annata funzionano, e non è difficile percepire l’apporto nella produzione di un fanatico del genere, il fondatore della Mute Daniel Miller. Cosa che emerge più che mai nella titletrack, momento più alto della produzione. Dove le soluzioni più visionarie di Jonny Greenwood e Thom Yorke sono rielaborate proprio con questo gusto che si proietta al futuro con un sguardo sempre rivolto alle avanguardie del passato.
Album omogeneo e complesso che non rapisce ai primi ascolti. A differenza di un “Drum’s Not Dead” non offre all’ascoltatore alcuna sintonia per quanto malata e avvolgente. “WIXIW” ha un retrogusto di distacco e alienazione. Nemmeno il finale in pieno stile folk psichedelico cambia la sostanza. Una sorta di riesumazione digitale dei travagli interiori di “Drum’s Not Dead”.
Un’altra eccellente produzione per quella che si conferma una delle band più illuminate e significative della scena contemporanea. Sorprendersi non ha più alcun senso.
82/100
(Piero Merola)
9 Luglio 2012