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“Until The Quiet Comes” è un album che ridefinisce la nozione di “attualità” e la rende ad un tempo problematica: è un disco che riassume a tal punto le dinamiche e le tendenze di una ormai diffusa sensibilità soulful hip-hop che il rischio è quello di risultare schiacciato sulla didascalia, sul Bignami della contemporaneità. Rischio al quale è forse, nelle condizioni date, impossibile sottrarsi.
Steven Ellison non è un novizio, da tempo è considerato sulle due sponde dell’Atlantico una delle menti più brillanti dell’epoca post-J Dilla, seminale e maledetta figura di producer morto trentaduenne nel 2006, nonché capace ed originale prosecutore dell’opera di quest’ultimo. Proprio alla figura di Jay Dee è necessario guardare per comprendere la lucidità e il destino di questo album, senza dubbio uno dei più importanti di questo 2012: è stato Dilla infatti a subodorare molti anni fa la nuova tendenza r’n’b oggi egemone, ed in larga parte a definirne i contorni e gli elementi di innovazione. In altre parole, niente nu-soul mainstream contemporaneo, da Frank Ocean e Miguel fino a The Weeknd, senza J.. Ma Ellison non è portatore di questa tendenza da oggi: il precedente “Cosmogramma” sintetizzava adeguatamente una tale propensione, esponendola però in una forma complessa e un po’ ermetica, nella quale i pezzi sembravano grezzi assemblaggi di idee ancora da sviluppare. E le idee, senza dubbio, non mancavano: dal free jazz alla dubstep, dalla house classica fino alle manipolazioni tramite laptop di strumentazione classica. Una proposta complessa, stratificata, e un po’ ostica.
Intuizioni che vengono oggi riproposte secondo quella che potrebbe essere definita una sensibilità pitchforkiana (che non a caso promuove a pieni voti l’album): semplificare le cose, renderle più nitide e fruibili, aprire tutto ciò che una volta era alternativo ed inquietante alla pacificazione estetizzante dello hipster tutto casa e dj-set. Difficile dire se queste operazioni stiano o no fagocitando ogni propensione all’alterità conflittuale, certo non si può sostenere che producano brutta musica.
L’esigenza di Ellison è però senza alcun dubbio autentica e lo sforzo artistico è notevole: nonostante la narrazione continua l’album è facilmente divisibile in tre parti definite che esemplificano i tre poli attorno a cui ruota il suono di Flying Lotus. Un primo quadro, fino a “Sultan’s Request” venato da pulsazioni dubstep filtrate certo da una sensibilità drum’n’bass, ed in generale segnato dalle presenze fantasmatiche ed inquietudini urbane tipiche del mood britannico mid-’00. È la parte strutturalmente migliore del disco, marchiata a fuoco dalla splendida “Getting There”. Una menzione per le collaborazioni, che emergono potentemente nella ipotetica seconda parte, da “Putty Boy Strut” a “Electric Candyman”, tra gli altri l’influentissimo Stephen “Thundercat” Bruner ed il presenzialista Thom Yorke alla produzione, nonché di Erycah Badu e Laura Darlington alla voce. È questa la sezione più strettamente ammiccante alla contemporaneità, con divagazioni jazz alla Skream, o liquidità soul-step alla Mount Kimbie, oltre che, come detto, alla scena statunitense del genere, in grande ascesa. Infine troviamo l’originalità retromaniaca anni ’90 della terza parte, che sembra guardare ai momenti “freddi” dell’ambiente bristol-sound di quegli anni: originale, sebbene derivata, proprio per la rievocazione di opzioni un po’ dimenticate dall’elettronica di questi anni, riemerse però di recente anche grazie al lavoro del progetto Ultraista di Nigel Godrich, di cui abbiamo parlato recentemente qui su Kalporz. Nelle pieghe di questi passaggi di fine ascolto troviamo forse il capolavoro dell’album, “Me Yesterday/Corded”, unico pezzo che riesce davvero a fondere con successo le variegate tensioni che agitano Ellison, accostando riverbero e ritmica in un assunto narrativo urbano aspirante all’universalità analogo alle composizioni che solo Burial sembra riuscire a creare. Dimostrando così ancora una volta che, anche nell’ambito di una proposta molto riflessa, attenta, moderata, sono l’attitudine e la forza emotiva, e non solo la caratura tecnica, a fare la differenza.
Da tutti i punti di vista evocati, “Until The Quiet Comes” risulta un album profondamente attuale, curato e, in ultima analisi, riuscito. Quasi un manifesto. Ma se ai tempi di J Dilla, che non sono poi troppo lontani, un disco così sarebbe risultato un manifesto d’avanguardia, adesso questi contenuti non appaiono piatti, già fagocitati ed inevitabilmente bastardizzati dal, se è lecito, mainstream?
76/100
(Francesco Marchesi)
16 Ottobre 2012