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Al primo ascolto ci si sente un po’ traditi. Non che ci si aspettassero miracoli dal quindicesimo album in studio di Nick Cave, ma gli ultimi due LP in studio avevano mandato segnali contrastanti. Un songwriting caldo, caldissimo in alcuni frangenti (soprattutto in “Abattoir Blues/The Lyre of Orpheus”). Meno caldo nel successivo “Dig Lazarus Dig” scritto sulla tastiera giocattolo dei suoi figli e tra i momenti meno riusciti di una carriera quasi trentennale. Nel mezzo i due momenti sbarello-divertissement di “Grinderman”, in cui ha relegato le sue peculiari sfuriate, in parte attenuatesi dopo il doloroso addio di Blixa. Ma Nick Cave è un po’ un dio, gli si perdona tutto, forse troppo. E al di là dell’addio del fedele compagno di avventure Mick Harvey, i presagi non erano così negativi. Primo album con un’etichetta fatta in casa (la Bad Seed Ltd.). Una copertina da badass con Susie Bick, modella e moglie sbattuta nuda – in copertina e fuori di casa – da un Cave che posa autoritario e senza baffo da burrito-western. E poi due magistrali ballad notturne a lanciare questo “Push The Sky Away”. “Who No Who U R” e soprattutto “Jubilee Street” che riportano le lancette del tempo indietro fino agli anni di “No More Shall We Part” e “Nocturama”.
La bellezza di alcuni passaggi dell’album si schiude davvero a fatica, bisogna superare la soglia del secondo e del terzo ascolto, come forse mai in passato. “Wide Lovely Eyes” è intinta di una spiritualità un po’ sfiatata, meglio “Mermaids”, adulta e sommessa. “Water’s Edge” per quanto scritta anch’essa su un canovaccio tradizionalmente Nick Cave ha un fascino sinistro e noir rimesso a nuovo da groove minimali e smorzati su cui il violino di Ellis scivola a meraviglia. Altro esempio “We Real Cool” in cui il pathos sfiora la teatralità rievocando le nenie del sofferto capolavoro “Boatman’s Call”.
Un gusto nuovamente classico, ma l’accompagnamento sempre pulsante di un Ellis mai così centrale ha dei risvolti molto attuali e contemporanei (“We Real Cool”), senza gli eccessi kitsch di alcuni momenti di “Dig Lazarus Dig” Il disco è stato partorito nel sud della Francia, in una villa ottocentesca, ma Cave aveva ideato i pezzi su un laptop, ispirato nei testi da imprecisati spunti, curiosità e notizie estrapolati dal web. Meno introspettivo, non perde e per certi versi riscopre la sua pura natura di crooner. “Push The Sky Away” è un disco di ballad a volte dal retrogusto manierista, come la title track o “Finishing Jubilee Street” dove le controvoci femminili interagiscono a meraviglia con l’inconfondibile timbro baritonale di Re Inchiostro.
La sensazione è che in questo paesaggio minimale e in chiaroscuro manchino proprio quelle canzoni indelebili che a Cave riescono sempre meno. Gli arrangiamenti sono perfetti, la voce non ha bisogno di descrizioni, ma anche negli otto struggenti minuti di “Higgs Boson Blues” dove si respira la depressione delle lunghe cavalcate di Neil Young, sembra sempre mancare un qualcosa. Non c’è più il Nick Cave maledetto di quegli Eighties da cui è scampato miracolosamente. Non c’è più il Nick Cave redento. Non c’è più il Nick Cave cantautore al pianoforte. C’è un cinquantacinquenne che ha fatto la storia, ha una voce intatta, ma senza la pretesa di trasformare i suoi tormenti in capolavori. Forse, rispetto a un tempo, sono proprio i tormenti a essere venuti meno. Ma se uscissero più dischi del genere, vivremmo in un mondo migliore di quello di Lazarus.
70/100
(Piero Merola)
18 Febbraio 2013