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Possono piacere o non piacere, ma i Deerhunter sono sempre lì. Una delle poche band che hanno ridato a modo loro linfa all’indie rock, nel senso alto del termine. A modo loro, perché con un frontman dall’aria da disadattato, mood da sfigatelli senza testosterone hanno cambiato la scena americana tra songwriting, revival, sperimentazioni mai pretenziose e canzoni indelebili. E una formula ormai inconfondibile, anche alla prova del quinto LP, registrato nello stesso studio dove nacquero “Microcastle” e “Parallax”. Il sorge in una strada senza nome di Greenpoint, area cool dei musicisti di Brooklyn che scelgono di defilarsi dalla “mainstream” Williamsburg, il vicino quartiere del pensiero unico hipster. Bradford Cox e soci si sono messi al servizio di Nicolas Vernhes, fido collaboratore e onnipresente produttore al fianco di Black Dice, Wild Nothing, Animal Collective, Les Savy Fav, Oneida e decine di altri artisti più o meno noti della East Coast.
Josh Fauver, autore dell’epica “Nothing Ever Happened” ha lasciato definitivamente la band e Josh McKay, altro personaggio oscuro della Atlanta più oscura si è unito ai quattro. Sempre in pianta stabile il sempregiovane Lockett Pundt, aka Lotus Plaza, autore del pregevole “Spooky Action At A Distance” del 2012. Le diverse anime della band sembrano aver trovato una nuova armonia. Non un’opera difficile dopo un’opera impeccabile del peso di “Halcyon Digest”. “Monomania” suona come il lavoro più sporco e garage mai concepito dai Deerhunter, senza le deviazioni eteree del passato, ma con una solida base compositiva. A dispetto della “violenza” dei suoni a partire dai primi due brani “Neon Junkyard” e “Leather Jacket II”, nemmeno le chitarre distorte e fastidiose offuscano il talento di quel bizzarro figurante travestito da donna che risponde al nome di Bradford Cox. Poi arriva la tenue “The Missing” a smentire la prima impressione, ma è l’unico brano scritto da Mr. Lotus Plaza e si sente.
Ai limiti del power-pop, è il momento più sdolcinato e sereno dei 45 minuti di “Monomania” . “Pensacola” è roba da Black Lips per famiglie, “Dream Captain” vagamente tysegalliana nel ritornello pone Cox nei panni di un Lennon indie-pop degli anni Novanta. Ci sarebbe anche la sincopata “Blue Agent” ma poi cresce e deflagra smorzata in dissonanze Sixties d’annata. Momenti ineffabili degni dei Broken Social Scene come “T.H.M.” riescono a variare il tema. Ma l’album decolla soprattutto nella seconda parte. L’accoppiata “Sleepwalking” e “Back To The Middle” sembra figlia della stessa sessione ed è a tutti gli effetti il suono Deerhunter, con tutti i break messi al punto giusto, i crescendo, gli arpeggi ubriacanti e soprattutto la coralità dei chorus. Dei piccoli inni che danno una lezione agli Strokes persi gradualmente la per strada del successo dopo “Is This It?”.
E poi c’è appunto “Monomania”, scelta per introdurre l’album. Ideale immagine di questi Deerhunter brutti, sporchi e garage, soprattutto nel delirante e assordante finale equalizzato male che risucchia la flebile voce starnazzante di Cox. I residui Atlas Sound da cantautore svampito sbucano fuori solo sul finale, negli ultimi due brani. Se ne potrebbe fare anche a meno, ma nel bene o nel male i Deerhunter sono anche questo. E, decontestualizzate dallo stridore monomaniaco, sia “Nitebike” che “Punk” sono il delizioso frutto di questo “nocturnal garage” che Bradford Cox aveva usato per presentare l’LP.
78/100
(Piero Merola)
25 giugno 2013