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Pretendere da Kanye West le mezze misure sarebbe come pretendere che un rapper nero eviti le espressioni “niggas” e “bitches” che anche in questo disco, non a caso, abbondano. “Yeezus” esce dopo una saggia campagna promozionale. Prima il mistero. Poi il tweet che ne annunciava l’uscita per il 18 giugno. E ancora le proiezioni pubbliche del suo volto in stile ologramma in decine di città di ogni dove. E infine il parallelo hype sulla sua dimensione privata, legato alla nascita della figlia avuta con l’improbabile Kim Kardashian. La figlia che sceglie di nascere nel fatidico weekend d’uscita del sesto attesissimo LP e che i suoi chiamano North, North West. Le mezze misure non esistono nemmeno in casa West. Roba da far arrugginire gli elmetti dei Daft Punk che, non a caso, freschi di “Random Access Memories” danno il loro contributo da produttori in 5 pezzi e mezzo del disco. Il titolo? Neanche questa una mezza misura: “Yeezus”, gioco di parole con Jesus al quale si è paragonato recentemente in un’intervista, prima di paragonarsi a Steve Jobs. Da ogni parte degli USA, le comunità nere metodiste e hanno poco gradito la blasfemia, poi si scopre che una traccia si intitola “I Am A God (feat. God)” ed è finita. Dopo il pippone capolavoro “My Beautiful Dark Twisted Fantasy” che nei suoi eccessi resta uno degli album più significativi degli ultimi anni, la controversa icona di Chicago, insomma, prova ad eccedere ancora. Come se ce ne fosse bisogno. Ma in modo molto diverso, dopo l’intermezzo di “Watch The Throne”, l’album con Jay-Z uscito due anni fa . Packaging a dir poco minimale, durata contenuta, tanto per iniziare. Registrato in larga parte nella Parigi dei Daft Punk, con delle tappe più o meno lunghe tra New York, Port Antonio, Bath e Malibu, “Yeezus” condensa in soli 40 minuti il suo genio L’elenco di collaboratori e cameo dell’ormai 36 enne compositore (rapper è ormai riduttivo) nato ad Atlanta è ancora una volta infinito, tra cui il “santone” Rick Rubin che già parla dell’esistenza di un possibile sequel.
Il filo conduttore, a detta di Kanye, è da rintracciarsi nella sua recente passione per la trap, per la drill e il mai sopito amore per l’house di Chicago. Ma, racchiudere in un genere o in un filone un album di Kanye West risulta impresa ardua. Esempio lampante: i primi due minuti e mezzo della traccia d’apertura“On Sight” scivolano lungo una base distorta à la Death Grips, industrial ai limiti del fastidio e all’improvviso piove giù come un’interferenza radio un sermone soul funkettoso della Holy Name of Mary Choral Family. Colpi da maestro del re Mida dell’hip hop americano, furbi, coraggiosi e giustapposti. Tra i momenti culmine, subito emerge lo straripante sabba “Black Skinhead”, un’anfibiata tra i denti in cui ai Daft Punk si affiancano Brodinski e Lupe Fiasco. Inizio sincopato à la “Beautiful People” di Marylin Manson, andatura tribale, testo incendiario e impagabilmente provocatorio. Contro chi lo vede al fianco di una donna bianca come se fosse King Kong. Contro le prevedibili critiche dei cattolici, o in alternativa di qualche battista conservatore. E poi il riferimento a “Chiraq”, la Chicago in cui la gente muore d’omicidio più che in Iraq, secondo una recente indagine. E poi quel rabbioso e ripetuto “God! God! God!” sputato nel finale con disappunto.
Preludio perfetto per “I Am A God” (nella dicitura ufficilae si legge “feat. God” giusto per moderare i toni). Si parte completamente a caso. Con un sample dancehall di Capleton, icona giamaicana del reggae non estranea ad accuse di omofobia e altre raffinatezze come buona parte dei suoi connazionali. Kanye West, sempre alieno al filone mainstream dell’hip hop fatto di gangsta, oro, pistole, crack, coca e mignotte, può permettersi anche questo. Base agghiacciante quasi EBM che sconfina nella techno grazie al lavoro del fedele collaboratore Mike Dean. E poi sbuca fuori, anche se non sembra, Justin Vernon (aka Bon Iver) e infine l’apocalisse, il vuoto, le urla strazianti e le viscere della Terra.
La voce di Kanye è ruvida, la metrica inafferrabile, la qualità della produzione lascia senza fiato.
“New Slaves” si protende sullo stesso canovaccio, con qualche inserto vagamente trap che prende piede. E ancora l’interferenza che non ti aspetti a fa sbarrare gli occhi. Un rockaccio semi-prog sconosciuto ai più enciclopedisti di una band d’annata ungherese, gli Omega, ben rivisitato dalla cura Daft Punk alle manopole. Un personaggio a caso, Frank Ocean, ci infila dentro la sua voce e il gioco è fatto. Dieci minuti di applausi. In “Hold My Liquor” la voce di Vernon è più definita, nel senso che inizia come un brano di Bon Iver, poi diventa un’amabile tamarrata in crescendo con la voce del diciottenne rapper Chief Keef, potenziata col solito autotune. Arriva il capo e tutto fila liscio, break barocchi, finale barocco da ultimo Daft Punk. Il seguito è quello che meno t’aspetti. Nuovo momento dancehall reggae con sirene, sussulti, cani veri che abbaiano in campione, cani in senso figurato quali Assassin dj a fare brutto e un r’n’b di Kenny Lattimore ad aggiungere sostanza. Eppoi ancora lui, l’ospite random, Justin Vernon. Un’improbabile accozzaglia della quale è difficile sindacare la resa sonora che è ai massimi livelli. Il tempo di riprendersi che arriva il compendio perfetto. Un lunghissimo ponte black che da Nina Simone, campionata in “Strange Fruit” arriva come in una macchina del tempo fino al nuovo classico hipster “R U Ready” dei TNGHT, duo scozzese-canadese di hip hop strumentale gonfio e drill così apprezzato da Kanye. Nel mezzo la voce effettata a rendere tutto così esoso, ma inattaccabile.
“Guilt Trip” continua a esplorare questi territori ed è forse il brano meno immediato, malgrado il cameo di Kid Cudi e i sample da versi di tipacci quali Pusha-T, i Lords Of The Underground e un altro giamaicano a caso, Popcaan. È una scelta che ricorre anche in “Send It Up” (vedi sample del classico “Memories di Beenie Man sul finale). Un’altra “jam” cupa e torbida in cui si unisce alla voce un altro dei giovani protetti di Kanye, il giovane King L, mentre alle macchine tornano i Daft Punk, insieme a Gesaffelstein e a Brodinski. È un esercito e quasi ci si chiede come si faccia a valorizzare questa costellazione di suoni, generi, spunti ed idee in soli quaranta minuti. Ma Kanye può tutto. Così nella chiusura si misura con quello che sembra un freestyle su una base motown. E invece è il sognante classico r’n’b dei Ponderosa Twins Plus One, “Bound”, e il brano così estivo e leggero rispetto al resto delle tracce ne è tributo (il titolo è infatti “Bound 2”). Si aggiunge al carrozzone Charlie Wilson, grande vecchio del funky degli albori a stelle e strisce e anche questa è andata.
Evitando le mezze misure e rischiando ulteriori blasfemie, Kanye West è sempre più un beatle del pop contemporaneo. Astuto nell’elevare e rendere oro spunti pescati in generi e gusti underground ma d’impatto. Impeccabile nel curare la sua immagine con un misto di ironia e megalomania. Che si creda Dio o Gesù lascia il tempo che trova, ma, se non altro, di questi tempi diverte non poco.
91/100
(Piero Merola)
27 giugno 2013