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Ho incontrato Alex Zhang Hungtai una volta a Berlino. Complici un paio di birre di troppo lo avvicinai con entusiasmo, esordendo con un irruento “Hey, you’re Dirty Beaches, I love your music!”. Malgrado l’iniziale imbarazzo, era palese come il complimento lo avesse reso felice. Chiaccherammo per alcuni minuti prima dell’arrivo della metropolitana e l’impressione che ne ricavai fu quella di un ragazzo estremamente gentile ed educato. Mi sembrò di scorgere nei suoi occhi anche un velo di tristezza, ma pensai che probabilmente era stata solamente una mia impressione, dovuta al fatto di trovarlo lì, tutto solo, appoggiato contro il muro ad aspettare la U8 alla fredda fermata di Alexanderplatz.
Ho aspettato molto prima di approfondire l’ascolto di “Drifters/Love is The Devil”, lo confesso.
Il motivo è semplice: l’ultimo doppio full lenght di Alex Zhang Hungtai, in arte Dirty Beaches, è un album oscuro, inquietante, a tratti quasi funereo. Ascoltarlo vuol dire precipitare anima e corpo in un torbido viaggio al termine della notte, dove più che il grande Céline a farsi largo è Cormac McCarty e le cupe atmosfere del suo capolavoro “La Strada”. In particolare i brani della seconda parte, lo strumentale “Love Is The Devil”, sembrano scritti passando attraverso lacrime e sangue, dopo un oscuro peregrinare attraverso i pozzi più oscuri dell’animo umano.
Diversamente da altri artisti Alex non si concentra sulle proprie parole, ma sceglie di manifestare il proprio sofferenza attraverso la creazione di una musica quasi visiva. Ad emergere con prepotenza sono paesaggi decadenti e desolati, scenari iperrealistici e proprio per questo motivo ancora più inquietanti.
In “Drifters” c’è ancora spazio per il cantato e qualcosa che si può ancora provare a chiamare melodia. In pezzi come “Night Walk” e “I Dream In Neon” (mai titoli furono più azzeccati) Alex si muove in nebulosi scorci metropolitani, tra ipnotici synth e oscure percussioni tribali, mormorando liriche indecifrabili, lamenti disperati, richiami d’aiuto. Nella splendida “ELLi” ci si sfiora nudi nella notte, ma non c’è liberazione né catarsi, solo sogni infranti ed amori spezzati. “Mirage Hall” è pura desolazione urbana, istinti primordiali che si rincorrono all’infinito, quasi ad anticipare quello che verrà dopo con “Love Is The Devil”.
Nel secondo disco la forma canzone viene meno, non esistono più singoli brani, solo un unico fluire di pulsazioni cosmiche, freddi droni, rumori bianchi e suoni sintetici. Si entra in nuovi sinistri territori senza speranza alcuna di uscirne, in un’atmosfera tra il sacrale e l’angosciante, per un’esperienza musicale che lascia spossati, esausti, senza difese.
Ci vuole molto coraggio per pubblicare un doppio album come questo. Se si decide di andare a fondo con “Drifters/Love Is The Devil” bisogna farlo con la consapevolezza che non sarà una passeggiata. Questa è musica che non accetta compromessi. Un paragone ingombrante e, in un certo senso, perfino pericoloso potrebbe essere quello con “Closer” dei Joy Division. Come il capolavoro del compianto Ian Curtis anche questa è un’opera problematica e dolente, ma che alla lunga, malgrado la sua complessità, s’imporrà grazie alla sua strabiliante forza evocativa.
Pura arte contemporanea.
80/100
(Stefano Solaro)
23 luglio 2013