Share This Article
Ok, non stiamo parlando di “What’s Going On” di Marvin Gaye, ma “The ArchAndroid” di Janelle Monàe è stato, insieme a “My Beautiful Dark Twisted Fantasy” di Kanye West, forse l’album che ha cambiato definitivamente la percezione della black music a cavallo del decennio, soprattutto agli occhi di un pubblico largo non sempre interno alle logiche del soul e dell’hip-hop. È importante partire da qui: prima ancora di accertare la qualità della prodotto musicale in senso stretto (per altro straordinaria in “The ArchAndroid”) è necessario soffermarsi sulla portata e la rilevanza di questi album come prodotto culturale in senso ampio. Sulla capacità di avvicinare gli orizzonti “bianchi” e “neri”, di rivoluzionare il mondo del nuovo soul, di fondere cinquant’anni di sapere musicale, dal rock’a’billy al funk (come scriveva il Centini nella recensione a “The ArchAndroid”), e colonizzare letteralmente il pop in modo al tempo stesso sofisticato e commercialmente incisivo. Tutto questo spiega la magnitudine che ha circondato l’attesa della terza prova della piccola cantante di Kansas City.
Troviamo prima di tutto un’atmosfera nei dischi di Janelle Monàe, riconoscibile, inconfondibile, intossicante. Dalle fumisterie orchestrali delle introduzioni che precedono le Suites – in “The Electric Lady” la quarta e la quinta parte del progetto originario “Metropolis” – alle dettagliate sequenze chitarristiche che accompagnano gli intermezzi pseudo radiofonici condotti dal fantomatico DJ Crash Crash (“Your favorite robotic, hypnotic, psycotic DJ”) intento a mobilitare le folle al seguito della causa della Droid-Rebel Alliance, corpo politico che si oppone alla segregazione degli androidi nell’universo futuristico abitato dalla alter-ego di Janelle, Cindi Mayweather. In effetti un mondo, quello ideato dalle multiformi fantasie dell’autrice di un colossale concept che si articola, per il momento, in tre mastodontiche puntate, alimentato dalla frequentazione delle opere di Hitchcock e Phillip Dick, dai contorni futuristici ma ricostruiti attraverso una “colonna sonora” che combina l’aria densa e tradizionale dei radio days descritti dall’ultimo Altman con le energie sopite di una Motown mai così lontana dalla realtà, le tessiture jazzy e funk con le scintillanti orchestrazioni soul. Un cosmo difficile da descrivere, ma incredibilmente tangibile e palpabile frutto di un lavoro sul dettaglio senza mai perdere di vista il quadro ampio tipico appunto del concept. Siamo al livello di complessità dei grandi album del progressive: e avete mai ascoltato “The Snow Goose” dei Camel avete un’idea di come le atmosfere possano materialmente fare il disco.
Il dettaglio dunque, curato fino alla consunzione nella prima parte dell’album, costruita su una sequenza imbarazzante di hits che però, rispetto alle analoghe serie di “The ArchAndroid” sembrano risentire meno di quella tendenza ornamentale e barocca che caratterizza l’impetuosa produttività di Janelle. Il suono è più compatto, decisamente orientato allo R’n’B, corposo e potente. L’esordio di “Givin’ Em What They Love” è, così come “Dance or Die” nel capolavoro del 2010, aggressivo ed intimidente – e imponente l’esecuzione della prima serie di versi (“I am sharper than a razor/eyes made of lasers/bolder than the truth”) – impostato su un andamento quasi blues e sulle solite evoluzioni chitarristiche del fidato e qualitativo Kellindo Parker, fino al trionfo esaltante nella magniloquenza degli ottoni che finisce per stingere nell’indolenza conclusiva degli archi. Prince qui si limita ad intervenire per prendere parte ad un processo di crescita artistica che rischia di cambiare i connotati di un universo che gli è appartenuto. “Q.U.E.E.N.” (con Erykah Badu), “Electric Lady” (con Solange) e “Primetime” (con Miguel) restituiscono bene la capacità di hit-machine della Janelle scrittrice, la quale constata proprio in “Primetime” la novità di una notte passata tra le ipotetiche braccia di Miguel invece che a scrivere canzoni. Quest’ultima traccia, vicina ai classici del soul, è un canto sotto le stelle con il campione del R’n’B odierno più tradizionale, mentre il duetto con Solange, dopo l’incredibile groove dell’intro, mischia le carte della canzone pop black non abbastanza per non diventare il pezzo che le Beyoncé di questo mondo avrebbero voluto avere in repertorio. Della collaborazione con la madrina Badu è invece soprattutto da segnalare la base ancora una volta sostenuta dalla lucida e nostalgica chitarra parkeriana, oltre alla chiusa quasi hip-hop sulle usuali, ma non per questo meno evocative, orchestrazioni.
Dopo la prima parte esplosiva, realmente apocalittica, conclusasi sostanzialmente con “Dance Apocalyptic”, la traccia immediatamente riconoscibile e manifesto dell’album, come “Tightrope” a suo tempo, un soul uptempo trascinante ma centrato, nonostante il piano mobile del fantascientifico concept, su tematiche oscure (“You got a life, but the zombie’s in the front yard/take a bath, but nothing gets the funk off”) o anelanti a gesti di rottura e fuga cui si allude in gran parte dell’album, arriva una seconda metà più intimista, legata ad un pop-soul leggero ma emozionalmente stratificato in cui Janelle parla di amore (“It’s Code”), scacchi e vittorie quotidiane (“Victory”) dolore e tenerezza (“Can’t Live Without Your Love”). C’è un lato riflessivo alle spalle dell’apparenza impattante, decisa, autorevolmente sbarazzina di questa ormai donna (è del 1985), ci sono fragilità dietro l’autrice di queste opere un po’ “Gargantua e Pantagruel” un po’ “The Souls of Black Folk”.
C’è in fondo tutto in un album a vocazione esplicitamente enciclopedista, segnato più dall’esigenza di omaggiare ed utilizzare il propri riferimenti che dall’occultarli e digerirli: il funk e la psichedelia di Sly Stone, la classicità densa di Marvin Gaye, la Motown, Stevie Wonder, Diana Ross, ed non ultimi i presenti Prince e Badu. Il piglio è però quello contemporaneo della miscellanea, dell’uso e dell’abuso conclamato, una Janelle immersa senza respiro nel paese delle meraviglie della musica afroamericana.
“The Electric Lady” è in ultima analisi un manifesto della musica dell’era Obama: un’epoca segnata da personaggi dalla genialità citazionista, nostalgica, incoreggibilmente barrocca, dalla contraddittorietà flagrante perché ad un tempo visceralmente artistoide e ossessivamente rivolta al dettaglio. Cialtronescamente guascona e umilmente lavoratrice. Da Janelle a Kanye, da Lebron a Kobe, da Oprah a Michelle. Un immaginario black che, restando alla musica, incarna un’idea totalizzante del pop, o meglio una volontà di totalizzazione: che probabilmente concepisce la definitiva emancipazione solo come retrocolonizzazione, un po’ come gli androidi di cui narra la saga di Metropolis.
Il lato pubblico ed abbacinante di personalità, almeno a sentir loro, tormentate da analoghe solitudini e complessi di inferiorità, dalla ricerca dell’amore puro frustrata dai meccanismi dello show business di Kanye West e dalla complementare ricerca del punto di rottura di Janelle Monàe.
88/100
(Francesco Marchesi)
12 Settembre 2013