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“Tempelhof” era il nome dello storico aereoporto di Berlino. Un imponente semicerchio di granito ormai chiuso da un po’, del quale cominciano ad offuscarsi i ricordi, le storie, le facce, gli anni passati: la primissima dimostrazione di volo nel 1909, la ristrutturazione in epoca nazista, gli americani che lo usavano come scalo diretti a Berlino ovest, circondata dai sovietici.
È a questo mausoleo di storia a cielo aperto che Luciano Ermondi e Paolo Mazzacani, dopo essersi incontrati proprio a Berlino nel 2007, hanno deciso di rendere omaggio.
Fino ad ora hanno fatto cose e visto gente: un disco nel 2009, poi due EP, nel mezzo un po’ di collaborazioni sparse.
Adesso esce il secondo LP, con il quale i Tempelhof provano a crescere.
Come nel disco d’esordio “We were not there for the beginning, we won’t be there for the end”, ritroviamo l’ ambient e lo shoegaze, le chitarre post-rock distorte e dilatate. A tutto questo, che è la struttura del suono dei Tempelhof, si aggiungono l’elettronica, il dub, il kraut.
Il risultato è “Frozen Dancers”, un disco dal titolo sincero che suona glaciale, oscuro, stratificato. Dalla traccia iniziale “Drake”, il pezzo di elettronica fighetta capace di mettere d’accordo tutti, fino all’ultima ghost-track “XX Cold Sand” asciutta e robotica, il suono si fa via via più articolato, ricco, contorto. Ed è infatti nei momenti in cui i Tempelhof innestano motivi analogici che il disco arriva al suo apice: in “The Dusk”, ma soprattutto nella cosmica “Skateboarding at night”, che sembra venire da qualche pianeta lontanissimo.
Tornando sulla Terra, arriviamo alle conclusioni. “Frozen Dancers” è un buon disco, che cresce di intensità anche dopo i primi ascolti. Dalla sua ha un’eleganza ricercata nei suoni e nelle melodie, atmosfere composte e ghiacciate. Per contro, qualche pezzo non riuscitissimo, forse perché in ritardo: talvolta si ha la sensazione di avere già sentito, già gustato.
74/100
(Enrico Stradi)
24 ottobre 2013