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Partiamo forte: “Engravings” è uno dei migliori dischi usciti quest’anno.
A suonarlo è Matthew Barnes, che per fare musica ha scelto il nome Forest Swords, con il quale si era già fatto notare nel 2009 e nel 2010 con due gioiellini di eppì: “Fjree Feather” e “Dagger Paths”.
Da allora sono passati tre anni complicatissimi. L’incoraggiante successo della nicchia giusta dei critici e degli ascoltatori più fini ha man mano lasciato spazio al tentativo riuscito di Barnes di defilarsi da quello che aveva attorno: l’enormità di Londra, le tendenze vuote, la musica degli altri. “Egravings” è il disco che interiorizza l’isolamento di Barnes dalla scena underground metropolitana, e che sfoga la sofferenza e il malessere del suo periodaccio recente.
Dal punto di vista prettamente musicale, “Engravings” riprende la tessitura dei dischetti precedenti, ma la asciuga, la arricchisce di strati e campionature più incisivi e meno caotici, confezionando un suono finalmente a fuoco, maturo, che è insieme oscuro, elaborato, tribale. Le influenze ci sono, ma è difficile distinguerle e separarle: il trip-hop, i riff e i ritardi psych, i suoni asciutti del kraut si fondono con l’ambient, l’industrial e le distensioni post-rock. Quello che si ascolta è quindi un disco complesso, che squarcia la maglia dell’impianto elettronico con campionature esotiche, quasi delle lacerazioni: le suggestioni epiche in “Ljoss”, i corni onirici in “Thor’s Stone”, ma soprattutto i tamburi cardiaci in “Onward”.
Ogni pezzo trasmette un senso di sofferenza sottocutanea, sembra sanguinare silenzioso in attesa che arrivi il finale a sfogarlo del tutto: l’ultima “Friend, You Will Never Learn” termina i suoi otto minuti aumentando il ritmo, sincopandolo, rendendolo a tanto così dalla disco impegnata.
Dentro il disco pulsano quindi un sacco di cose diverse, ma a stupire è il senso di compiutezza: i suoni si mischiano in una miscela pungente, potente, ordinata. “Engravings” è un disco che piange, si lamenta ferito, ma lo fa con così forza e purezza che quasi commuove.
86/100
(Enrico Stradi)