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Bella e brava da poter fare solo invidia. Annie Clarke ha già tre album più o meno ineccepibili all’attivo. In Italia ha fatto discutere per esser finita inconsapevolmente sulla copertina di Mucchio e Rumore con la stessa foto in primo piano. Di queste polemiche ci frega meno di nulla, anche perché Kalporz la mette in copertina dal suo pregevole esordio di ormai sette anni fa, “Marry Me”, quando Annie era una semi-sconosciuta ventiseienne introversa e timidina, ma dall’indubbio talento di scrittrice e polistrumenista.
Il suo percorso verso il pop d’autore dagli algidi prodotti da one woman band degli albori è approdato a un maturo pop contemporaneo umanizzato da contaminazioni funk e da camera. A qualcosa è servita la collaborazione con David Byrne dei Talking Heads, con il quale quasi due anni fa ha partorito “Love This Giant”, lavoro tanto ambizioso quanto velleitario e a tratti stucchevole, non in grado di sopperire con la forma alla mancanza di sostanza di molte tracce. Anzi, pare che Annie abbia tenuto per sé e per il suo quarto LP omonimo “St. Vincent” il meglio delle sue ultime composizioni. Senza l’ombra del maestro, nonostante il lungo tour in coppia, Annie ha avuto il tempo di chiudersi nella solitudine del suo studio di Austin, Texas per poi completare l’opera nella sua Dallas. E non ha deluso le altissime attese.
Non è più una ragazzina prodigio, ha 32 anni anche se non li dimostra e i tempi dei Polyphonic Spree e dei tour nella superband di Sufjan Stevens, sono ormai lontani. Avrebbe le potenzialità per diventare una pop star continuando a sfoderare brani killer potenzialmente ballabili come già “Actor Out Of Work” e “Cruel”. In parte il primo estratto “Birth In Reverse” prova a dare un seguito del genere, tra Prince e Beck, ma si distingue per quelle chitarre aspre e dissonanti a lei tanto care. Un po’ di più un altro degli estratti che hanno preceduto l’uscita del disco, “Digital Witness”. Sfarzosa parodia delle interazioni umani ai tempi del web. Pare che Annie sia poco avvezza persino a Google. Come ha raccontato di recente, l’ultima volta che ha cercato qualcosa su di lui è finita su un video di un fan che si masturbava eiaculando sulla copertina del suo LP “Actor”.
Ebbene sì, a decifrare la traiettoria di St. Vincent si fa fatica. Vita privata lontana dai riflettori, look aristocratico scelto per il lancio del disco che ben si abbina alla sua attitudine un po’ aliena, un po’ elitaria.
Ha provato a definire le sonorità di questo quarto LP come la musica festaiola da suonare idealmente durante un funerale. Una definizione non troppo originale e che non mette bene a fuoco la complessità dell’album. Si capisce subito con la convulsa “Rattlesnake” in apertura. L’eredità della collaborazione con Byrne si sente, ma quel respiro tutto St. Vincent è sempre vivo. La voce come tratto distintivo, il solito equilibrio tra analogico e digitale. E quella produzione barocca che riempie subito lo stomaco senza il rischio indigestione.
La copertina è solo un trucco. St. Vincent non è diventata glam, sa sperimentare con stile e sobrietà in “Bring Me Your Love”, in “Regret” e “Severed Crossed Fingers” sfodera la sua indiscussa vena da cantautrice sempre ispirata.
È sempre lei, fidatevi.
(Piero Merola)
83/100
3 marzo 2014