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Largamente potente è il potere dell’hype. In questi ultimi anni se ne sono viste tante di stelline brillare improvvisamente e fortissimo per poi spegnersi altrettanto repentinamente.
Per una serie di motivi che andrò a spiegare di seguito, Chet Faker e il suo disco d’esordio “Built On Glass” rischiano di essere ascritti al circo delle comete del 2014.
Ma prima di cominciare con gli spiegoni è meglio fare qualche presentazione.
Giovane produttore australiano, bianco, molta barba, nato Nicholas James Murphy, Chet Faker fino ad adesso ha fatto pochino e raccolto molto: qualche cover e remix riusciti bene, un primissimo EP riuscito meglio (“Thinking in Textures” del 2012), altre collaborazioni fighette (con Flume, ad esempio).
Insomma un ragazzo che sembra si sappia muovere bene e in maniera furba. Manco il tempo poi di far uscire il suo primo disco, che già tutti ne parlano. E se ne parla perlopiù bene, perchè c’è poco da contestare: hype o non hype, “Build On Glass” è un disco che si ascolta volentieri. R’n’b, soul, pop, glitch, robine dance: è tutto lì dentro, ben confezionato e senza strafare.
Nella prima parte dell’ellepì Chet-Nicholas-James concentra tutte le cose più classy, con l’impronta marcatamente black: l’iniziale “Release Your Problems”, “Talking Is Chap”, “Melt” e “Gold” sono perfette così nel loro pop molleggiato. Tutti potenziali singoli, in attesa che qualche sgangherato dj ci faccia qualche altrettanto sgangherato remix.
La seconda parte del disco è anticipata dalla traccia “/” che recita testualmente “this is the other side of the record. Now relax still more and drift a little deeper as you listen”: insomma per dirci che da lì fino alla fine del disco le cose prendono un’altra piega.
Una piega più glitch, più sperimentale, più elettronica: nei pezzi che seguono, la voce di Chet-Nicholas-James non interpreta più la parte del protagonista assoluto, ma diventa essa stessa una delle parti che compongono l’impianto sonoro. È in canzoni come “Lesson In Patience”, “Blush”, “Cigarette and Loneliness” che la voce del ragazzo australiano si fa vero e proprio strumento, alla stessa stregua dei sintetizzatori o dei fiati di ottone. Perla delle perle è “1998”, il pezzo che scalderà gli aperitivi estivi della gente dalle orecchie raffinate (attenzione però, che anche in questo caso i dj sgangherati sono lì pronti a impacchettare merda).
Tutto molto bello quindi? Sì, per ora. “Built On Glass” è un disco che arriva nel momento giusto, in questo momento pre-estivo orfano di particolari disconi. Forse è l’assenza di paragoni, o forse il disco è poi bello davvero. Per adesso il parere è positivo, ma mal che vada a fine anno ci si renderà conto che era più o meno un abbaglio, chissà. A quel punto chiederemo scusa.
76/100
Enrico Stradi