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Per fortuna, mi pare, Pitchfork non è più così seguito o, quantomeno, bibbia intoccabile. Non conosco dati o trend, la mia è solo una sensazione. Che però è corroborata da un elemento, quello sì, oggettivo: sempre di più Pitchfork si trova “in difesa” sugli album inglesi meritevoli. E’ stato sempre più o meno così, ma in questo 2014 siamo costretti a registrare la punta dell’iceberg rappresentata dal 5.5 a “Sun Structure” dei Temples, che comunque lo si consideri è stato un debutto di quelli pesanti, e – per arrivare al thema decidendum di questa recensione – il 6.1. a “Lacuna” dei Chilhood. Che invece noi di Kalporz abbiamo subito veicolato in “Questo Spacca!“, per poi arrivare lunghi – ma non fuori tempo massimo, ovvero in timing per i “recuperi” di fine anno degli album “bucati” – con la recensione a tutto tondo.
I Childhood sono un quartetto di Nottingham capitanati dalla voce metà baritonale/metà ragazzino di Ben Romans-Hopcraft, che guardano molto all’era d’oro del britpop di fine ’80 (Stone Roses in primis) capitalizzando la recente rivisitazione americana di quel periodo (Smith Westerns). Quasi un ping-pong da una parte all’altra dell’Atlantico, con i gusti immutati: le sognanti atmosfere della più bella adolescenza (“As I Am”), il candido pop notturno di Seal (“Falls Away”), lo sbrang chitarroso mischiato con le pasticche di Madchester (“Sweeter Preacher”). La sorprendente facilità con cui i quattro lavorano questa pasta sonora mal si coniugherebbe con la loro giovane età, e invece questo “Lacuna” è proprio un debutto di quelli da ricordare. Nonostante l’indole british fino al midollo, fa capolino ogni tanto una sensibilità soul (“Tides”) che risposta l’asse ancora al di là dell’oceano, dall’altra parte, a controbilanciare le volte in cui il batterista parte con i tempi raddoppiati tipicamente stone roses (il ritornello di “You Could Be Different”, la splendida “Solemn Skies”), nelle quali i Childhood si manifestano orgogliosamente inglesi.
Se Pitchfork non avesse la coda di paglia potrebbe onorare un album del genere della palma di debutto dell’anno, mentre in realtà si affanna a cercare (inutilmente) di affossarlo. Ma la storia – e anche quella musicale – è fatta di corsi e ricorsi, e non siamo certi che il colonialismo a stelle e strisce che dura da quasi una decina d’anni a questa parte possa continuare in eterno. Nei Childhood, forse ancora più che nei belli-ma-derivativi Temples, c’è la base per una ripartenza della Union Jack.
81/100
(Paolo Bardelli)