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La prima volta che ho avuto a che fare con Kendrick Lamar è stata un po’ casuale e fortunosa. Si esibiva a Chicago in un rovente pomeriggio al Pitchfork Music Festival del luglio 2012. Non un orario da headliner, i rapper più attesi erano altri, il capolavoro “good kid, m.A.A.d city” sarebbe uscito qualche mese più tardi e solo i più avvezzi al genere lo conoscevano per il promettente debutto “Section.80”, datato 2011 e contenente gemme del calibro di “A.D.H.D.” e “Fuck Your Ethnicity”. Difficilmente nella vita di chi scrive era capitato di imbattersi in un colpo di fulmine del genere, davanti a un’esibizione così potente e viscerale nella sua semplicità old school. Quasi tre anni dopo, parlare del talento di Kendrick Lamar sembra quasi scontato, un dato di fatto condiviso trasversalmente, a prescindere spesso da gusti, background e generi di riferimento. Ed è tutto merito di un artista che senza far parlare mai di sé per aspetti extra-musicali, si è guadagnato un seguito planetario per meriti squisitamente artistici.
“To Pimp A Butterfly” ha subito battuto i record di ascolti su Spotify. L’uscita, prevista per il 23 marzo, è stata anticipata in omaggio al ventesimo anniversario dell’uscita di “Me Against The World” del compianto poeta-MC del gangsta-rap di Harlem, 2Pac.
L’attesa era già stata alimentata dall’uscita di due singoli che si scoprono ora un po’ fuorvianti in questi 78 minuti che racchiudono in un disco hip hop il meglio della tradizione black d’autore, dal soul al funky d’annata finendo nel g-funk e nel southern hip hop. La prima ad arrivare è stata “i”, incalzante risposta contemporanea al g-funk e agli Outkast più latini che nasce da un sample di “That Lady” degli Isley Brothers. Poi come un pugno nello stomaco è arrivata, a inizio anno, “The Blacker The Berry”, straripante inno di emancipazione black, in cui Kendrick, alla fine dei mesi più caldi dei disordini di Ferguson, si scaglia contro le violenze tra “fratelli” e il vittimismo ipocrita e fatalista degli afro-americani più che contro l’odiato oppressore bianco. Kendrick non ha il temperamento del capo-popolo, manda messaggi elaborati e complessi, mai immediati anche nei passaggi liricamente più duri ed espliciti. In questo ricorda il suo tormentato idolo 2Pac, assassinato ormai un ventennio fa e che Kendrick omaggia nel brano di chiusura, “Mortal Man”: dodici minuti e nel mezzo un’intervista virtuale in cui si passano in rassegna i progressi dell’emancipazione nera da Martin Luther King a Nelson Mandela. Kendrick che prova ad autoproclamarsi l’ultimo portavoce e predestinato del popolo afro-americano,nel concept del disco, è l’ennesima “farfalla” del mondo black con le ali tarpate dai magnaccia dell’industria discografica (“pimp”). Il titolo è un gioco di parole ispirato a “To Kill A Mockingbird”, il bestseller del 1960 di Harper Lee noto in Italia come “Il Buio Oltre La Siepe” ambientato nell’Alabama segregata degli anni Trenta.
Entrando nel cuore del disco, Tupac Shakur resta una guida spirituale, più che musicale. Nelle sedici tracce del disco gli spunti e i riferimenti sono innumerevoli. A partire dal sample-manifesto d’apertura in chiave motown di Boris Gardiner, “Every Nigga Is A Star”, di “Wesley’s Theory”, che tra le comparse accoglie il mito dei Parliament George Clinton, Dr. Dre, Flying Lotus alla produzione e Thundercat al basso. Mezzo secolo di black subito condensato in una traccia. Stretto nella morsa di due personaggi allegorici ricorrenti, Lucy e Uncle Sam, il disco è un viaggio di emancipazione individuale con il ventisettenne di Compton che cerca di sfuggire alle tentazioni del successo e della fama. “For Free?”, primo di due intermezzi, è un irresistibile freestyle su un tappeto free-jazz (che ritorna ancora più fumoso e dissonante in “u”), il secondo è “For Sale?” che dell’intermezzo ha solo la dicitura e si presenta come un brano vero e proprio, solare e ubriacante con apparizioni di Taz Arnold AKA Ti$A, Preston Harris e Bilal (presente in molte altre tracce). I brani non sono immediatamente metabolizzabili, se si esclude qualche traccia che entra subito in testa come gli anthem di “good kid, m.A.A.d city”. E’ il caso di “King Kunta”, funky tetro e ipnotico dove cita tra le altre cose Michael Jackson di “Smoooth Criminal”e i Parliament, la sincopata “Alright” in cui sbuca fuori l’onnipresente Pharrell e “Hood Politics”, l’attacco più esplicito all’impotente classe politica americana fatta di Democrips e RepBloodicans. Il brano ha come base “All For Myself” di Sufjan Stevens (da “The Age of Adz”). Non l’unico riferimento a mondi estranei alla black music. Anche se non confermato tra i credits, la traccia che segue, “How Much A Dollar Cost?”, accoglie James Fauntleroy (The Underdogs), ma sembra riprendere il jazzato à la Charles Mingus della struggente “Pyramid Song” dei Radiohead da “Amnesiac”. “Instituzionalized” e “These Walls”, figlie del passato, ma al contempo dei superbrani a loro modo già senza tempo.
Il disco scivola via in una traiettoria avvolgente e indecifrabile dopo i primi ascolti. Si sente l’impronta dei già citati Outkast, di Snoop Dogg (guest in “Insitutionalized”) di Warren G, The Roots, Gil-Scott Heron, Q-Tip e del messia nero D’Angelo tornato con successo lo scorso anno. Alla produzione, oltre a Dr.Dre, Flying Lotus e Thundercat, contribuiscono alcuni dei nomi clou del genere come Sounwave, Boy-1da, Dr. Dree e Rakhi.
Le storie non suonano più come lezioni di vita nate da vivide narrazioni autobiografiche di un ragazzo cresciuto in una delle aree più malfamate dei Los Angeles, ma si impongono come delle allegorie quotidiane incredibilmente attuali e d’impatto tra droga, violenza, dio denaro e la critica al capitalismo bianco come elemento di corruzione dell’identità black. Non sorprende più il flow che lo rende il miglior MC della sua generazione. Sorprende semmai la versatilità musicale, coraggiosa, sofisticata e mai troppo ammiccante.
A partire dalla copertina, con dei “nigga” che gozzovigliano davanti alla White House con ai loro piedi il corpo defunto di un giudice bianco, “To Pimp A Butterfly”, segnerà a lungo l’immaginario sociale e musicale del mondo afro-americano contemporaneo. Nella sua complessità e in un background così eterogeneo, si rivela uno degli ultimi grandi capolavori di pura black music, in grado, come pochi altri del passato più recente, di conquistare i cuori e le anime più impensabili. Nella sua traiettoria tormentata, contraddittoria, piena di spettri, dicotomie e lati oscuri, enigmatica, ma incredibilmente coerente, Kendrick Lamar ha fatto la storia e la farà ancora per molti anni.
95/100
(Piero Merola)