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Ogni volta che ascolto Courtney Barnett non riesco a togliermi dalla mente che sia la messia giusta per mettere d’accordo Bob Dylan con i Nirvana. Praticamente 40 anni di musica ribelle: un’impresa impervia, eh?
Ma andiamo per ordine. Come per ogni casus di successo, e la songwriter australiana è appena all’inizio ma annuso fin d’ora una fulgida carriera (il primo kalporziano a puntarci è stato il nostro Guerra), si assommano diversi fattori concomitanti. L’essere al posto giusto al momento giusto, in primis. E non è male essere australiano oggi, dove i musicisti non devono dimostrare nulla (mica hanno dei mostri sacri autoctoni con cui confrontarsi). Al di là degli stilemi classici States-Britain, infatti, nella terra dei canguri pare esserci una migliore libertà comunicativa ed espressiva, che guarda al passato senza condizionamenti (i Tame Impala lo stanno a dimostrare, in altra categoria). L’attenzione degli ascoltatori poi, si sa, è più liquida, per cui si è quasi tutti alla pari: va bene che i media inglesi continueranno a spingere aprioristicamente la loro roba, ma ormai noi che possiamo scegliere in tempo reale di ascoltare qualsiasi band che proviene da qualsiasi angolo del mondo ce li filiamo molto meno. Gli americani vanno già un po’ meglio, sono leggermente meno sciovinisti (Pitchfork ad esempio accolse in maniera entusiastica il secondo EP di Courtney, “How to Carve a Carrot into a Rose”, nel 2013), ma non più di tanto. Anche loro ci vogliono ancora vendere continuamente cappelli texani e speroni, tavole da surf e magliette hipster newyorkesi.
Courtney Barnett può, effettivamente, fregarsene di tutto ciò. Sparigliando le carte. In “Sometimes…”, il suo primo album sulla lunga distanza, gioca a fare la cantautrice degli Anni Sessanta, con quel suo bellissimo modo strascicato di “cantare parlando”, e ci mette tutta l’energia dei decenni successivi, imparata in tanti concerti (si sente) e nelle sessions in garage (“Nobody Really Cares If You Don’t”), oltre a un gusto bluesy che non lascia indifferenti (“Small Poppies”, “Boxing Day Blues”). E va anche oltre il binomio ’60-’90: come non cogliere in canzoni come “Aqua Profunda!” l’animo (sempre australiano) dei Vines o in “Depreston” il minimalismo indiepop svedese che andava tanto di moda nello scorso decennio? Piccole sensibilità che dimostrano l’estrema versatilità della Barnett, che arriva fino a sfiorare un po’ – ma solo di striscio – un approccio psichedelico in “Kim’s Caravan”.
Al di là dei rimandi musicali, è proprio la parola che assume essa stessa dignità melodica attraverso la cantilena apparentemente svogliata di Courtney, e mi dispiace allora di non avere avuto ancora il tempo necessario per approfondire a dovere il lato testuale dell’album. Per ora mi basta ridacchiare pensando al verso “Give me all your money and I’ll make some origami honey” per cogliere in esso quella vena anarchica e ironica che, mi pare, sia la modalità di approccio delle sue liriche. Qualche lettore là fuori, che sta leggendo ora, sono certo abbia la capacità (e la curiosità) di fare un’analisi dei testi della Barnett: se ce la manda la pubblichiamo, ne varrà sicuramente la pena.
Qualche nota dolente? Poche, o nulla. Manca il singolo killer (“Pedestrian At Best” ci va comunque vicino) e, in generale, latitano i ritornelli canticchiabili, ma ciò non intacca la completezza e freschezza del suo esordio. Anzi, è una carenza che ci fa ben sperare per un miglioramento ancora più marcato del suo songwriting, per il futuro.
Non ce n’è bisogno per ora di melodie pop. E’ questione di essere o no attraenti, e Courtney Barnett lo è indubitabilmente.
80/100
(Paolo Bardelli)
15 aprile 2015