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Mi piacerebbe decifrare “Hypnophobia”, nuovo e secondo lavoro del cantautore olandese più cool del momento, attraverso delle parole-chiave che facciano orientare nella sua galassia, che creino insomma un percorso. La prima parola è spirale: facile ipnotizzarsi con le sue melodie roteanti e poco roboanti, cullati dai morbidi suoni ’70 che permeano tutto l’album. E’ una questione di tocco delle batterie, di rotondità delle forme, di onde sinusoidali che escono fuori prepotentemente dai Korg vintage utilizzati.
Il secondo termine-chiave è barocco: gli sviluppi sonori sono come decorati, e si mescolano con il virtuosismo settecentesco come se i sintetizzatori fossero, in realtà, clavicembali. Non si tratta di tecnica, ma della volontà di andare alla ricerca del bello utilizzando tutte le sette note.
La terza keyword abbraccia ancora di più nel complesso “Hypnophobia”, ed è cinema: Jacco non è visionario in un senso proprio del termine, ma ugualmente le dieci canzoni che compongono questo suo lavoro ultraperfetto costituiscono un compendio necessario per delle immagini in movimento. Per il cinema, insomma. Ultimamente mi è capitato di rivedere “Barry Lyndon” di Kubrick: ecco, sullo sfondo sonoro di quel film si sarebbe potuto sviluppare in maniera completa “Hypnophobia”, unendo pure il gusto barocco che si ricordava prima.
La quarta ed ultima “briciola di Pollicino” è trepidazione: come i Portishead di “Third” o, ancor meglio, gli Air di “The Virgin Suicides”, Jacco non ha paura di scandagliare i nostri subconsci per far emergere i mostriciattoli sotto i nostri letti di bimbi. E, in effetti, in alcuni casi, quasi di filastrocche infantili si tratta, con il facile rimando a Syd Barrett.
L’unitarietà di intenti (riuscita) in “Hypnophobia” porterebbe a non citare alcuna canzone in particolare, lasciando che ciascuno di voi vada alla scoperta di questa fascinosa nebulosa, ma una menzione è d’obbligo per la “The Rip” di questo decennio, una song lunga più di 8 minuti che non ci lascia scampo obbligandoci ad una immediata autoanalisi. Sì, avete indovinato, è “Before The Dawn”. Per il resto, ma – come dicevo prima – non è quello l’importante, ci sono almeno un altro paio di brani realmente clamorosi; è che gli stessi si perdono nell’insieme per dare valore aggiunto al tutto, e non a loro singolarmente.
Comunque la pensiate, “Hypnophobia” è un’esperienza. Io direi anche un’esperienza trascendente, ma forse è meglio che siate voi che la coloriate con l’aggettivo che più vi trasmette. L’importante è che sia un’esperienza vissuta, ça va sans dire.
88/100
(Paolo Bardelli)