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Nella velocità del web spesso si trascurano retroscena e dettagli del passato nell’immergersi nell’ascolto delle nuove uscite. Succede anche con band come i Beach House che avrebbero ancora poco da dover dimostrare, con quattro dischi all’attivo, tre dei quali perfetti per il genere e le atmosfere messe insieme dal duo che ha esordito ormai un decennio fa.
“Depression Cherry” arriva dopo una fase di incertezza e malumore di Victoria Legrand che ha ammesso umanamente una pesante crisi creativa dopo il successo di “Bloom” che è riuscito nell’impresa di ripetere e per certi aspetti mettere a fuoco le qualità di un capolavoro come “Teen Dream”. Chi li ha visti agli albori dal vivo, sa che i Beach House erano una band molto casalinga e onesta che senza troppi artifici offriva delle performance a bassa fedeltà, per usare un eufemismo. L’aggiunta di una batteria vera ne ha migliorato la resa in studio e sul palco. Al tempo stesso l’arricchimento del suono ha messo in crisi l’identità di Victoria e Alex. Non poco. I due si sono chiusi in studio in Louisiana alla fine del 2013 e hanno lavorato su pezzi tutti scritti già nel 2012, anno di uscita del predecessore. Si è subito pensato a un ritorno alle origini e il primo singolo, “Sparks”, ha messo in luce una svolta in maniera un po’ fuorviante. La virata più decisa che in passato verso gli scenari più shoegaze della scuola dream-pop, che ha fatto storcere il naso a qualcuno, di fatto non ci è stata.
E in questi quarantacinque minuti, di fatto, non si ascolta niente di diverso dai Beach House di “Devotion” e “Teen Dream”. E’ un problema? No, perché le melodie benché meno immediate e d’impatto che in “Bloom” continuano a essere a fuoco. Bastano i primi secondi dell’opening track “Levitation” per accorgersene. E poi brani come “Space Song” e “PPP” per essere rapiti come d’abitudine dalla calda e distaccata voce della Legrand con quei giri di chitarra semplici e narrativi che il partner Scally continua a scrivere con la stessa ispirazione di sempre. “Beyond Love” e “Bluebird Love” sono delle lullaby tipicamente Beach House, figlie contemporanee dei Cocteau Twins (il cui eco è sempre più evidente in “Wildflower”) e di certe suggestioni notturne à la Mazzy Star . Niente di nuovo, ma, appunto riuscire ad avere ancora la vena per emozionare e trafiggere i cuori mantenendo uno stile inconfondibile, è tutt’altro che scontato. “Space Song” suonerà già sentita, ma è un già sentito più che invidiabile.
Il duo di Baltimora, ancora affiancato dal producer cult della East Coast Chris Coady, ha lavorato per sottrazione, senza strafare, cercando di riappropriarsi di quella dimensione intima e introspettiva degli esordi (e per certi aspetti riuscendoci in pieno). Solo nella liturgia conclusiva di “Days Of Candy” hanno accolto degli elementi esterni, otto coristi del Pearl River Community College, per un requiem di chiusura che evidenzia fino alla fine di “Depression Cherry” un ritorno alla semplicità e al minimalismo. Quando ci sono i brani e i brividi continuano a scorrere lungo la schiena, non si può che essere soddisfatti.
83/100
(Piero Merola)