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Ogni disco di Kurt Vile, songwriter e polistrumentista di Filadelfia, è un piccolo viaggio con una nervatura psichedelica. Sebbene sia chiaro che per nessun album dell’autore americano si possa parlare di psichedelia in senso stretto, buona parte dei brani ha un’andatura dilatata ed ipnotica. Si tratta di un modo particolare e personale di approcciarsi alla forma canzone, in grado però di includere e far coesistere al suo interno, seppur sottotraccia, la musica americana più classica (folk, country, classic e southern rock). Significativa è la reinterpretazione di “Downbound Train” – canzone di Bruce Springsteen- contenuta nell’EP “So Outta Reach” (2011).
“B’lieve I’m going down” – se possibile – porta ancora più avanti questo discorso di scrittura, in maniera spontanea ma matura, già a partire dal titolo dell’album, rimando alla tradizione blues e folk ed a un certo modo di vivere la malinconia. Non a caso, forse, come primo singolo è stato scelto “Pretty Pimpin”, il pezzo più radiofonico di Vile (ma fino a un certo punto), che pur durando un po’ troppo (cinque minuti), riesce ugualmente ad essere orecchiabile e contenere una chitarra con un suono leggermente southern. Gli altre undici brani, pur sviluppando sonorità diverse, seguono la stessa direzione concettuale: portare il passato, la tradizione nel presente. Il musicista di Filadelfia, più che nei dischi precedenti, sembra quindi trovare l’equilibrio tra incisività pop, fluire labirintico della musica e personalizzazione delle proprie influenze. “I’m an Outlaw”, ispirata dalla letteratura Southern gothic (Flannery O’Connor, Cormac McCarthy), è un voler ritornare alle radici: al banjo, primo strumento comprato a Vile dal padre, appassionato di bluegrass. Viene quindi accantonata, in alcuni pezzi, la chitarra acustica, strumento principe in album come “ Smoke ring for my halo” (2011) e il penultimo “Wakin on a pretty daze” (2013). Nascono così brani come “Life like this”, “Lost my head there” e la strumentale “Bad Omens”, costruiti intorno al piano e con l’obiettivo – in certi passaggi riuscito, in altri meno – di coniugare l’eleganza classica di certi piano songwriter con le code sognanti ed avvolgenti, proprie della cifra stilistica dell’autore americano, rappresentata al meglio nei frammenti folk intimistici ed acustici di “All in a daze work” e “Kidding around”.
Un estrema varietà, quindi. Pregio e difetto di “B’lieve I’m going down”: disco tendente a una certa disomogeneità stilistica, che però non va ad intaccare la qualità delle canzoni. Anche perché le più belle – “Wheelhouse” (scritta dopo aver concluso una jam con i Tinariwen allo studio Rancho de Luna a Joshua Tree) e “Wild imagination” – sono tra le migliori che Vile abbia mai scritto e suonato: la prima è un vortice trascinante e desertico; la seconda è la perfetta sintesi tra atmosfera psichedelica, feeling pop e battito folk. E quindi, a conti fatti, pur con qualche disorganicità, si fa evidente la crescita artistica del musicista americano: si impone una maturità compositiva che, procedendo per addizione, raccoglie e sintetizza imprinting creativi diversi.
73/100
(Monica Mazzoli)