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Nessuno, forse nemmeno la loro etichetta, avrebbe mai potuto immaginare un seguito così immediato di “Depression Cherry”. L’ultimo album dei Beach House era uscito, dopo una gestazione più lunga e sofferta del previsto, il 28 agosto, a sette mesi dalla fine delle sessioni di registrazione a Bogalusa, in Louisiana. L’8 ottobre, a nemmeno due mesi dall’uscita ufficiale, è arrivata l’incredibile sorpresa con un tweet che ne annunciava il seguito, a dir poco prematuro, per il 16 ottobre. Una scelta assolutamente coraggiosa, anti-commerciale e assai ambiziosa, dopo un album di alto livello che, tuttavia, ha faticato a entrare subito nel cuore di vecchi e nuovi appassionati, arrivando dopo un album così potente e d’impatto come “Bloom”. Rispetto agli album precedenti mancava forse di pezzi trascinanti a un primo ascolto, ma a freddo possiamo dire che non ha per nulla deluso le aspettative su una band che ha ormai sonorità definite, per certi aspetti peculiari, e in un certo senso inconfondibili (vedi recensione).
Che dire di questo rischiosissimo secondo capitolo dell’imprevedibile 2015 dei Beach House? Dai proclami di Victoria, si tratterebbe di un album più terreno, politico e completamente nuovo rispetto ai loro ultimi lavori, ma in ogni caso difficile coglierne l’essenza innovativa, dai primi ascolti. La sua voce è ormai un marchio di fabbrica difficilmente alienabile da arrangiamenti e struttura del brano. Gli stessi paragoni con “Depression Cherry” cadono, se si considera che i nove brani del suo successore sono stati realizzati nelle medesime sessioni di registrazione e con il medesimo produttore in cabina di regia, il fedele Chris Coady.
L’unico modo per affrontare questo regalo inatteso è immergersi in un ascolto libero e disinteressato.
La primissima impressione è quella di avere tra le mani un album più oscuro, dalle sonorità meno pulite e limpide degli ultimi tre dischi. In “Thank Your Lucky Stars” i Beach House sembrano riappropriarsi del loro mood più introspettivo e a bassa fedeltà prevalente nell’LP omonimo d’esordio e nell’incantevole “Devotion”, uscito ormai sette anni fa. Basti ascoltare “She’s So Lovely”, “The Traveller” e “Common Girl” per tornare indietro a quei tempi, quando il duo si esibiva per piccolissime platee con uno show a metà strada tra karaoke e songwriting dall’alto tasso etilico. Ora le platee sono cambiate, i pezzi erano potentissimi allora e continuano a esserlo oggi. Non è un ritorno al passato, ma una versione matura e consapevole delle loro tendenze dream-pop più fatali e viscerali. Come in un incantesimo, sembra davvero impossibile stancarsi di quei giri di organo e delle chitarre avvolgenti di Alex Scally e di quelle linee vocali che continuano a stregare anche gli animi più algidi.
Tra immancabili riverberi e i soliti echi stranianti, non mancano esplorazioni meno timide verso territori più o meno nuovi, in parte già toccati, effettivamente, sia in “Teen Dream” che nello stesso “Depression Cherry” . Non mancano rimandi allo shoegaze più morbido e “pulito”, in “Elegy To The Void” e “One Thing” dove l’eredità dei Cocteau Twins torna a farsi sentire. Un’eredità mai sopita che pervade anche il brano più insolito, “All Your Yeahs”, dall’andatura synth-pop, in atmosfere da riedizione slowcore degli Young Marble Giants. C’è un po’ dei My Bloody Valentine più dreamy e poi quel retrogusto Air nella versione dream-pop e contemporanea di un certo cantautorato francese d’annata a partire dalla traccia d’apertura “Majorette” e in “Common Girl”, ma ricorrente anche in molti altri passaggio. In fondo, non dimentichiamolo mai, Victoria, a Parigi, vi è nata e vi ha studiato teatro e già in brani come “PPP”, per restare nel 2015, certe venature erano meno nascoste che in passato. Ma tutto sommato, è difficile, persi nell’ascolto, pensare a qualcosa di diverso dai Beach House. I brani hanno, a tratti, un’intensità e un tiro leggermente più a fuoco, rispetto a “Depression Cherry”, ma forse oggi diremmo l’opposto, se a uscire per primo fosse stato “Thank Your Lucky Stars”.
Solo “Rough Song” suona effettivamente come già sentita e vagamente autoreferenziale, ma non crea particolari problemi nell’ascolto che fila liscio fino alla chiusura.
Anche perché la chiusura, poi, apre letteralmente tutti i cuori a metà: “Somewhere Tonight” è una ballad anni Cinquanta da brivido, rivisitata à la Beach House, con un impensabile andatura emotiva a metà strada tra catarsi dream-pop e tenebre.
Se Lynch la scegliesse per il ritorno di Twin Peaks potrebbe dare a tutti il colpo finale.
La speranza vera sarebbe quella di avere altri due album dei Beach House anche nel 2016, ma per loro si può sempre aspettare.
84/100
(Piero Merola)