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Se l’indie rock contemporaneo continua ad avere un senso è grazie a band come i Deerhunter che, superato il primo decennio di carriera, continuano a dare, a modo loro, attualità alla musica suonata con le chitarre. Tra decine di nomi che stanno sfornando album che sembrano registrati negli anni Novanta e altri che stanno accantonando le chitarre, la band di Bradford Cox resiste, con un fascino e una formula intatta e ormai consolidata. Era arrivata un paio di mesi fa “Snakeskin” a mischiare le carte con un funky ballabile e sincopato che la band aveva testato solo in capolavori un po’ nascosti della discografia, come “Operation”. Poi, subito, con la rassicurante e solare ballad un po’ bubblegum un po’ R.E.M. (presenti, non a caso, nella mappa concettuale che ha preannunciato il disco insieme a INXS, Tom Petty e Tears For Fears), “Breaker” avevano riportato tutto entro i binari più standard.
I Deerhunter hanno ancora molto da dire, alla faccia di chi snobba molte band di questo nuovo decennio, fragile, privo di identità e derivativo. Provate a pensare a quanti grandi nomi della storia più o meno recente, anche da grandi platee, sono finiti nel dimenticatoio dopo due o tre pietre miliari. La band di Atlanta è al settimo disco, solo con “Monomania”, ultimo capitolo, ruvido e a bassa fedeltà, hanno convinto a metà, pur mantenendosi a livelli sopra la media. Nessun elogio cieco della contemporaneità, ma esistono poche band, e ne sono esistite pochissime, in grado di scrivere al settimo album brani vibranti e intensi come “All The Same” e “Duplex Planet”, graffianti, eterei nelle melodie, sobriamente psichedelici e con arrangiamenti fantasiosi e inconfondibilmente Deerhunter. Bradford Cox, nonostante le sue fisime da divo insicuro, e gli altri tre compagni d’avventure, Locket Pundt, Josh McKay e Moses Archuleta, hanno messo in piedi un equilibrio che ha pochi eguali. Trovare il proprio sound senza sembrare l’ennesima copia sbiadita di uno dei grandi nomi del passato e non ripetersi quasi mai, oggi, è davvero un’impresa.
Solo nell’onirica “Living My Life”, forse, si finisce per sembrare qualcos’altro, nella fattispecie gli amici Animal Collective che pure hanno già ispirato molti pezzi del progetto solista di Cox, Atlas Sound (le cui sonorità ricorrono nella sussurrata “Leather and Wood”. Se c’è una tendenza è quella del pop psichedelico che riprende quota a scapito del cuore post-punk e kraut-rock che aveva ispirato capolavori come “Cryptograms” e “Microcastle” (“In Astra”). Rispetto a “Monomania”, vi è una ricerca compositiva molto più affine a un altro capolavoro che ha avvicinato tantissimi ascoltatori alla band, “Halcyon Digest” E nella stessa “Carrion” che guarda agli anni Sessanta e alle intense ballad lisergiche dei Mercury Rev o dei Flaming Lips della prima ora, anche grazie alla voce di Cox, non si può pensare ad altro che ai Deerhunter. Nulla di diverso dai Deerhunter. Basta ascoltare un brano semplice e perfetto come “Take Care” che dai synth vagamente Eighties si trasforma da rassicurante lullaby dream-pop un po’ retrò in una straziante mini-suite psichedelica nel loro stile.
I Deerhunter di “Fading Frontier” riescono a dire in 36 minuti quanto molte altre band contemporanee non riescono a dire in tre o quattro album.
E scusate se è poco.
84/100
(Piero Merola)