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Si avvicina l’uscita dell’attesissimo “Fading Frontier” (in uscita il 18 ottobre per 4AD), già anticipato dal folgorante funky psichedelico di “Snakeskin” e dal sognante e solare pop di “Breaker”. Una delle band più importanti e celebrate dell’ultimo decennio è pronta a tornare su disco, ma anche sui palchi italiani. I Deerhunter suoneranno in Italia per due date, giovedì 12 novembre al Magnolia di Milano (info) e venerdì 13 novembre al Bronson di Ravenna (info). Di spalla il side-project del frontman Bradford Cox, Atlas Sound. Noi ripercorriamo la loro carriera, nel nostro stile, con i sette migliori brani della loro discografia scelti da redattori e collaboratori di Kalporz.
7. “Monomania” (da “Monomania”, 2013)
Title track del penultimo disco dei Deerhunter, “Monomania” è un vero e proprio manifesto di quel lavoro. Un album di distacco dal resto della discografia della band capitanata da Bradford Cox, denso di vibrazioni elettriche e di ruvidezze sonore del tutto nuove rispetto al passato. “Monomania”, così come tutto questo sesto disco del gruppo, è una canzone volutamente lo-fi in cui la scrittura ma soprattutto la produzione sonora hanno un ruolo fondamentale. In questo senso non si può trascurare l’apporto in produzione di Nicolas Vernhes assieme alla band. Il futuro ci dirà se “Monomania” sarà un caso isolato nella storia dei Deerhunter.
(Francesco Melis)
6. “Operation” (da “Weird Era Cont.”, 2013)
Sono convinto che, molto spesso, il valore specifico di una band sia misurabile anche grazie alla qualità di b-side e outtake che non finiscono negli album principali. “Weird Era Cont.” esce a nome Deerhunter a qualche mese di distanza dal loro capolavoro “Microcastle”. Una scelta provocatoria e polemicata nata per l’uscita troppo prematura del leak di “Microcastle”. Unico disco dei Deerhunter con brani composti, ciascuno, da un singolo componente della band, in questo brano scritto e cantato da Bradford Cox, mettono in luce un animo post-punk/new wave eccentrico: una sorta di Talking Heads sghembi e psichedelici, tra dance a bassa fedeltà, revival storti à la Ariel Pink, quel dream-pop tipico del loro sound e una psichedelia stridente e stralunata.
(Piero Merola)
5. “Cryptograms” (da “Cryptograms”, 2007)
Siamo nel 2006, New York, e soprattutto Brooklyn, sta vivendo la sua piena rinascita musicale indipendente Bradford Cox ha meno di venticinque anni ed è una persona fragile, insicura un po’ per disturbi mentali, un po’ per la terribile sindrome di Marfan che lo affligge. Non ha ancora quell’atteggiamento strafottente un po’ da diva e sono ben lontani i tempi della sua comparsa al fianco di Matthew McConaughey e Jared Leto nello splendido “Dallas Buyers Club” di Jean-Marc Vallée (2014). Nel 2005 la band di Atlanta aveva esordito con “Turn It Up, Faggot” (tira su il volume, finocchio), nata da un urlo di un buzzurro che aveva ben pensato di deridere l’orientamento sessuale di Cox durante uno show. Un disco ben accolto underground, ma ancora acerbo. Le sessioni di “Cryptograms” vanno malissimo, la morte del bassista Justin Bosworth è ancora una ferita aperta. Sono gli amici Liars a convincere i Deerhunter a tenere botta e così il disco vede finalmente la luce nel 2007. Ricordo ancora il primo ascolto di quell’album: per metà ambient, per metà punk. C’era tutto il meglio dei generi con cui sono cresciuto dalla psichedelia al kraut con un senso nuovo e originale dato a chitarre e composizione. Il secondo colpo al cuore: la titletrack, ipnotica, ossessiva e selvaggia, ascoltata per la prima volta dal vivo. E l’intuzione sul valore di una band che avrebbe fatto strada. E di strada, più di otto anni dopo, ne ha fatta, meritatamente tanta.
(Piero Merola)
4. “Agoraphobia” (da Microcastle”, 2008)
Camaleontici, sfuggenti, eterei, sognanti, difficilmente inquadrabili eppur ben riconoscibili, i Deerhunter, gruppo americano di Atlanta, sono quello che più definirei come “prodotto non omologato al nostro tempo”. Fanno musica che non affonda mai i denti nelle carni della tradizione eppure lacera con intensità in ogni punto vitale. Prendete “Cryptograms” del 2007; un disco kraut- space con l’assenza dei trucchi del mestiere dei crucchi e degli Hawkwind. Eppure funziona, ha amalgama, poca dedizione e tanto istinto. Il più recente, “Monomania”, del 2013 scomoda il mio amato garage. Ma non ci sono le streghe dei Sonics così come non segue la linea diretta dei The Stems. Però ci sono rumore, umori e intensità da vendere. “Microcastle”, che non ha la compattezza e l’accuratezza di “Halcyon Digest “(2010) è però un grande disco pop. Ho scelto proprio “Agoraphobia” per avallare la mia tesi: avete mai sentito un pezzo pop così perfetto? E il ritornello dov’è? Si perde nel flusso di quella chitarra che pare una carezza, si fa largo dopo lo spleen dell’intro “Cover Me (slowly)” e ci consegna un gruppo che ha ben chiaro chi è ma non dove andrà esattamente. Nel dubbio, noi li seguiamo.
(Nicola Guerra)
3. “Desire Lines” (da “Halcyon Digest”, 2010)
“Desire Lines” è una delle due canzoni cantate da Lockett Pundt, posta esattamente a metà dell’album, come una specie di spartiacque. Il pezzo porta in sé una dicotomia: nelle note si divide tra un incedere determinato dell’inizio e una sovrapposizione di chitarre che accompagna la lunga coda dreamy; nel testo espone il faccia a faccia della naturale evoluzione da ragazzo a uomo, a cui non si vuole cedere, anche per la paura di vedere i sogni infrangersi davanti alla scelta tra l’adeguarsi e il volere. Lucida nell’analisi del “dato di fatto”, la canzone prende però posizione. Rimanere liberi rimandando quanto più possibile quello che comunque sarà.
(Elisabetta De Ruvo)
2. “Nothing Ever Happened” (da Microcastle”, 2008)
Molti si sono innamorati dei Deerhunter ascoltando “Nothing Ever Happened” per la prima volta. E non potrebbe essere altrimenti, visto quello che la band di Atlanta è riuscita a racchiudere in 6 minuti: krautrock, pop psichedelico, punk, blues e una scintillante coda strumentale che potrebbe non finire mai. Anarchica, eppure quasi geometrica nella sua struttura, “Nothing Ever Happened” è una vecchia corvette che corre singhiozzante su una statale in rovina. I versi di Cox, a prima vista nichilistici, in realtà non sono altro che una presa di coscienza sulla futilità del vivere in perenne attesa di qualcosa. I Deerhunter potranno anche non essere amati da tutti, ma di un brano così parleremo (e scriveremo) ancora tra vent’anni.
(Stefano Solaro)
1. “Never Stops” (da “Microcastle”, 2008)
Ci sono due ragioni – tra le tante – per amare alla follia “Never Stops”: la prima è quell’ululato nel ritornello che si incrocia con gli inneschi di chitarra, un “aahhhhh aaa aaa aaaah” che in realtà sarebbe un “I love” in quella che è una perfetta metafora dell’amore. E’ come se la voce e la chitarra, nessuna delle due perfettamente lineari, si rincorressero in un eterno dualismo. Un tendere verso l’altro per mai sovrapporsi. In questa asimmetricità melodiosa sta tutto il segreto dei Deerhunter, dei novelli Elvis Presley (vedi il tempo di batteria iniziale dei tempi di “Happy Days”) aggiornati dai larsen dei Sonic Youth e dal gusto, prettamente odierno, della psichedelia degli anni ’10. E poi c’è il secondo motivo: mi mette sempre, ma proprio sempre, di buonumore. E questo credo che sia un effetto speciale racchiuso in una song. Quasi un segreto d’alchimista.
(Paolo Bardelli)