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La nostra recensione di “Blackstar” esce nel giorno peggiore. David Bowie se n’è andato questa notte. Era già pronta da un paio di giorni ma abbiamo deciso di pubblicarla comunque: oggi diventa anche il nostro modo per ricordarlo. Grazie David.
In un mondo liebnitzianamente sistemato, chi decidesse di scrivere una recensione dovrebbe farlo assecondando tre motivazioni o esigenze fondamentali: primo, la volontà di segnalare un determinato album che potrebbe passare inosservato; secondo, l’intenzione di descrivere o interpretare il senso estetico di un lavoro che ha bisogno di essere svelato o criticato; terzo, il bisogno di informazione da aggiungere o qualche commento essenziale da esprimere a proposito della poetica del disco in questione. I più fini hanno però già compreso che rispetto a “Blackstar”, il nuovo di Bowie, nessuno di questi tre punti avrebbe necessità di sussistenza. Tutti sanno che è uscito e di cosa si tratta, quindi non ha bisogno di essere segnalato. Esprime autonomamente il proprio senso senza alcun bisogno di un supporto critico. Ha una poetica così chiara e risonante da far tremare ed emozionare il mondo, più degli esperimenti nucleari della Corea del Nord.
Purtroppo o per fortuna non viviamo in un mondo logico, né giudiziosamente orientato alla ragione analitica e utilitaristica, perciò chiunque è libero di dire quello che gli pare, trasgredendo il dovuto ritegno e il necessario rispetto nei confronti di cotanta assoluta quintessenzialità.
Non sarò il primo né l’ultimo dei vani chiosatori che sprecheranno parole su questo album, che è il ventottesimo di studio del sessantanovenne artista inglese. Ognuno si sarà già fatto la propria idea. Anche chi non lo ha ascoltato e mai lo ascolterà per intero. Ciononostante sta nel diritto e nei limiti del compito che mi sono impunemente e irrazionalmente sobbarcato di rivelarvi il mio giudizio sulle canzoni in esso contenute. “Blackstar” è un disco in cui il turgore creativo dell’ultimo Bowie esaspera attraverso arrangiamenti ampollosamente oscuri e stilizzati una vacuità espressiva e compositiva più o meno evidente. Le idee pure sono scarse. Gli scheletri melodici e armonici sanno di vecchio e di plastica, di stanchezza e di inoffensivo cinismo. Eppure vi è qualcosa di commovente, d’irrazionale e di inebriante che si riverbera sul cupo fondo della sterilità senile. Specie nella traccia numero tre, “Lazarus”, una ballata tragica, percorsa da tastiere, feedback e fiati di potente fascino, su cui Bowie s’innalza con un ritornello fragile e allo stesso tempo iconico, trionfale. Un altro numero da ricordare è l’elegiaca “Dollar Days”, dove il pop sinfonico e verboso recupera le metriche di Ziggy Stardust e l’algida disperazione del Bowie berlinese, mescolandosi ad atmosfere noir-jazz post-ellingthoniane e progressioni epiche da art-rock cervellotico. Altrove (“Blackstar”, “’Tis a Pity…”, “Sue…”, “Girl Loves Me”) gli arrangiamenti e le prestazioni produttive contano più della voce e della sostanza musicale. Il discorso si confonde tra riferimenti free-jazz da camera, radioheadismi e petergabrielismi evitabili, distorsioni variabili, tenore dark e batteria simil-jungle. Naturalmente Bowie è un artista che ha già imparato da trent’anni come fare a cavarsela quando le idee di base sono scarse. È un sapiente che sa raccontare la sua saggezza. E certe volte il racconto prende il sopravvento sullo stesso contenuto. Che poi vi piace o non vi piace conta poco. Conta zero. Volete mettere con tutto il clamore, con il gesto, con l’ennesima dimostrazione di super-attualità e trasversalità?