Share This Article
La scelta di chiamare un disco “Suicide Songs” è sicuramente suggestiva. La copertina, in bianco e nero, lo è altrettanto: Jamie Lee, cantante ed autore dei testi dei Money, è a petto nudo e ha un coltello puntato, in bilico, sulla fronte. Un’immagine forte, pensata non con l’intento di provocare ma di scattare l’istantanea di un attimo: il periodo di ubriachezza pesante, di confusione e di crisi personale attraversato da Lee, ossia colui che è, a tutti gli effetti, l’anima artistica della band mancuniana, tentennante tra musica e poesia. Questo fluttuare tra note e parole, evidente nel lavoro d’esordio “The Shadow of Heaven” (2013), continua nell’ultimo album ed è in qualche modo la politica fondante dei Money: il modo di comporre, di scrivere dando pathos e forza alle parole attraverso la musica ha un fine preciso, ossia quello di “creare una sorta di sentimento, di spettacolo della bellezza”, di “ritrarre una verità poetica” che può fare anche male. La quasi title track, “Suicide song”, è espressione di questa poetica – complesso di concezioni/idee artistiche – appassionata e sincera nei termini in cui la canzone (pop) diventa un affresco impressionista: la realtà – la depressione di un amico – viene rappresentata, tra malinconia e gioia resistente, a sprazzi (sonori) che esplodono all’improvviso inserendosi in un contesto di calma apparente. Le sfumature del brano, che sarebbe semplicemente acustico, sono tratteggiate dalla sezione fiati arrangiata da Charlie Andrew (produttore del disco). La narrazione musicale si arricchisce, quindi, di stratificazioni: la struttura elettroacustica dei pezzi viene amplificata da tessiture di archi e fiati. E l’alternanza di toni forti e tenui non avviene più per sottrazione ma per addizione, nuove gradazioni si aggiungono al suono d’insieme che si fa più composito sottolineando le tonalità multisfaccettate dei testi: la sottile linea tra il buio e la luce, tra la speranza e la disillusione, tra l’esserci e lo scomparire. Questa esile divisione tra opposti è presente in diversi passaggi: “Suicide song” si apre con il verso “I know some of us need to turn the light into dark” ossia il chiarore si può trasformare facilmente in oscurità; la prima strofa di “I’ll be the night” descrive il confine labile tra giorno e notte, con un invito alla resistenza ovvero lo spegnersi della luminosità non segna la fine di qualcosa ma n’è solo il proseguimento, “when I was a child I made a deal against the sun/ that if it died out that I would carry on” ; i primi versi di “You look like a sad painting on both sides of the sky” rappresentano la fugacità dell’aurora perché “il mondo indossa l’alba come un giorno, come un dipinto di un volto i cui tratti svaniscono” (“The world wears the dawn like a day/like a painting of a face/whose features fade away”). Le canzoni si presentano come vere e proprie raffigurazioni di flussi lirici: la voce di Jamie Lee, libera da schemi, è interprete ardente di fiumi inarrestabili di quadretti elegiaci. E la musica diviene un mezzo attraverso cui elevare, innalzare quasi a livello spirituale il racconto testuale: dalla traccia di apertura fino alla conclusiva gli arrangiamenti sono all’insegna di venature psichedeliche ed intimistiche, il tono spoglio e profondo (voce e chitarra, pianoforte) dei brani è ampliato, espanso tramite la grandiosità trascendentale di archi (viola,violino, violoncello), di fiati (tromba, trombone, fagotto, flicorno e sassofono) e di strumenti immaginifici come la dilruba indiana (simile al sitar) suonata in apertura di “I am the Lord”.
Un disco quindi in cui musica e parole sono legate indissolubilmente, con l’obiettivo di raccontare storie fatte di costernazione e di speranza.
75/100
(Monica Mazzoli)