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Torna in Italia una delle band folk-rock più popolari d’Australia. I Boy & Bear passeranno dal Biko di Milano (giovedì 10 marzo) e dal Bronson di Ravenna (venerdì 11 marzo) per presentare il terzo album “Limit Of Love”, registrato in Inghilterra, uscito per Nettwerk/Self nell’ottobre del 2015 e finito subito al primo posto delle chart australiane.
Da risposta australiana a Fleet Foxes e Local Natives, i cinque ragazzi di Sydney, oggi, sembrano virare verso un sound più classico da figli dei Fleetwood Mac. Abbiamo fatto due chiacchiere con la band partendo dalla genesi dell’ultimo disco per poi parlare di Italia e della scena musicale australiana.
Come procede il tour?
Sta andando molto bene, stiamo già stati in Inghilterra per due settimane, Olanda, Germania. Siamo reduci da un gran concerto in Berlino e siamo molto carichi.
Parliamo del vostro nuovo album “Limit Of Love” che segna secondo me una svolta verso un sound più maturo, complesso, potente, molto più rock rispetto agli esordi. Direi che più che in passato oggi i Boy & Bear, prendete questa espressione con la dovuta cautela, suonano come una band pronta per le grandi arene.
Senz’altro, in questi ultimi anni suonando molto in giro abbiamo preso confidenza nel nostro approccio che è più da band rock, più energico e granitico.
L’impressione è che suoniate molto più come una vera e propria band a partire dagli arrangiamenti, non sembrate più l’evoluzione di un progetto solista come nei vostri esordi.
Effettivamente rispetto al passato passiamo molto più tempo insieme a comporre e a tirar fuori i nuovi brani. Non abbiamo un metodo standard, ognuno nella band segue il proprio. A volte si parte da una canzone acustica e gli altri aggiungono come in una jam i diversi pezzi da cui nasce il brano, altre volte si parte tutti insieme a pensare a un nuovo brano. La svolta è arrivata con “Harlequin Dream” che ci ha permesso di suonare in centinaia di posti diversi in tutto il mondo. Lì abbiamo preso consapevolezza del nostro essere una band con questo tipo di equilibrio tra i diversi componenti dei Boy & Bear.
Com’è stato lavorare al fianco di un producer prestigioso come Ethan Johns che ha ereditato la professione di suo padre (al lavoro con The Who, Led Zeppelin, Rolling Stones) collaborando con nomi del calibro di Paul McCartney, Ryan Adams, Kings Of Leon? Qual è stato il contributo più importante che vi ha dato in fase di registrazione.
Suona tutto, è un musicista incredibilmente stimolante da cui poter apprendere davvero molto a livello artistico. Anche umanamente, è stato decisivo nell’incoraggiarci e nel motivarci in studio. Si tratta di uno quei produttori che ci tengono molto a valorizzare l’approccio live di una band nel mezzo della performance in studio. Aveva un sacco di storie da raccontarci e di consigli sulla base dell’incredibile varietà di artisti con cui ha collaborato nella sua carriera. Inoltre, da polistrumentista qual è, ha suonato molto al nostro fianco soprattutto alle percussioni, suonando persino sonagli e percussioni in alcune nostre session. Il disco è nato un po’ alla vecchia maniera, in presa diretta. E ciò si avverte subito, ascoltandolo.
“Limit Of Love” è stato il primo album registrato all’estero, visto che avuto il privilegio di registrare il disco in Inghilterra nel Real World Studio di Peter Gabriel nei pressi di Bath, nel Wiltshire dove hanno lavorato grandissimi artisti. In che modo questa trasferta ha influenzato il vostro sound?
Tutti noi siamo nati e viviamo in Australia e abbiamo deciso di andare lì proprio per poter lavorare al fianco di Ethan Johns. A livello di sonorità direi che il maggiore impatto avuto sul disco è stato proprio a livello di qualità, per il privilegio di lavorare per quattro settimane in uno studio del genere. Per altri aspetti si trova in uno stabile immerso nel verde della campagna inglese e ciò non può che aver influenzato il nostro modo. Non capita spesso di poter lavorare per molti giorni completamente concentrati sul proprio lavoro senza alcuna distrazione.
Siete molto popolari in Australia, avete raggiunto il primo posto delle classifiche di vendita nel vostro paese con gli ultimi due album, incluso appunto “Limit Of Love”. Ma proviamo a pensare a chi non ha mai sentito parlare dei Boy & Bear. Come li descrivereste oggi in due parole e come li avreste descritti agli esordi, ai tempi di “Monofire”, il vostro album di debutto del 2011?
Il più grande cambiamento probabilmente sta nel fatto, come hai detto te, nella maturità del suono, grazie all’esperienza di sei anni di tour in tutto il mondo. Per certi aspetti può suonare un po’ più pop e rock in senso tradizionale che è poi ciò che ci ha influenzato nella nostra evoluzione dagli esordi a oggi. La nostra maturità si percepisce nella ricerca delle armonie e di chitarre più efficaci e d’impatto. Dal folk siamo senz’altro passati a un sound più elettrico.
Oltre ai riferimenti classic che si percepiscono da Crosby, Stills, Nash dei vostri esordi folk ai Fleetwood Mac e derivati di questo terzo disco, ci sono anche delle band contemporanee che vi hanno ispirato in qualche modo?
Direi Sufjan Stevens, Beck, José Gonzalez, come band The National e The War On Drugs.
Se vi può incoraggiare, The National all’inizio della loro ascesa hanno suonato all’Hana-Bi di Marina di Ravenna dove vi siete esibiti nel vostro primo tour italiano nell’estate del 2014. Lo stesso dicasi per The War On Drugs (al Beaches Brew 2013) che inoltre si sono esibiti come voi a Sestri Levante sempre in quel tour. Vi piace suonare in Italia? Avete dei ricordi particolari legati ai vostri passaggi in Italia?
Abbiamo scoperto dei posti magnifici viaggiando in Italia, la gente è molto aperta e socievole, il cibo è fantastico, per non parlare dell’architettura. Dalle grandi città come Roma e Milano, e poi Bologna, i posti di mare come appunto Sestri Levante e poi la spiaggia dell’Hana-Bi nel nostro primo tour. Dei posti davvero incredibili e un’atmosfera unica.
Proviamo a parlare della musica australiana oggi. Trovo che sia una realtà musica molto eterogenea in cui è difficile rintracciare dei trend particolari. Esistono dei tratti comuni tra i molteplici nomi australiani venuti fuori negli ultimi anni? Per fare due esempi recenti, penso a Tame Impala o a Courtney Barnett.
Ci sono tantissime band australiane che merito, ma il bello è proprio questo, forse. La gente è molto più consapevole in passato del valore di certe cose grazie a internet e alla possibilità di mettersi in mostra davanti a platee sempre più grandi, nella rete. Trovo che la musica della nostra nazione sia influenzata in egual misura dalla musica britannica e da quella americana, ma siamo così lontani da proporre certe sonorità con un approccio inevitabilmente diverso. Siamo tutti molto ostinati nel lavorare nel migliore dei modi per poter emergere da una zona così distaccata e distante dal resto del mondo, anche perché suoniamo molto dal vivo. E ci piace farlo.
Qual è la città migliore per fare musica in Australia oggi?
Noi veniamo tutti da Sydney che è una città che amiamo, dove stiamo molto bene e di cui siamo fieri, ma ovviamente anche città come Melbourne storicamente hanno dato molto alla musica e tuttora hanno grandissimi nomi, vedi Perth e l’Australia Occidentale con i Tame Impala.
Una nuova band emergente di quelle parti che vi sentite di consigliarci?
Gli Holy Holy, ottima band che dal vivo spacca.