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I Quilt, tra gli esponenti più interessanti della “neopsichedelia americana” degli anni dieci, hanno pubblicato il loro terzo disco, “Plaza” (uscito sempre per la Mexican Summer): il passo decisivo nella definizione di una propria cifra stilistica, riassumibile nel tentativo di attualizzazione e personalizzazione del pop psichedelico di metà anni sessanta, quello della West coast statunitense. A partire dalla copertina dell’album: quadro senza titolo di Ken Price (1935-2012). Prendere in prestito l’immaginario astratto dello scultore e pittore losangelino contemporaneo nasconde una volontà ben precisa, anche se forse casuale. Il dipinto senza titolo dell’artista americano, raffigurante una sedia in uno spazio completamente vuoto, riassume di fatto il concetto di magia della quotidianità, ossia come qualcosa di normale possa diventare affascinante. Un disegno, come quello di Price, di un oggetto appartenente alla vita di tutti i giorni diventa intrigante nella sua banalità, grazie alla preferenza di colori accesi e vivaci (l’arancione del pavimento) e alla scelta di un’angolatura chiusa da due finestre. Lo stesso titolo del disco – “Plaza”- gioca sulla contrapposizione tra idea di ordinarietà e di sorprendente. Il termine “plaza” ha infatti un’accezione dualistica, può avere due significati, ben distinti: quello di centro commerciale e quello di piazza (intesa come centro e luogo artistico di una città). Nell’album i Quilt cercano quindi di raccontare piccole grandi storie (perlopiù personali) ispirandosi (come raccontato in qualche intervista) a scrittori come Raymond Carver e utilizzano però una narrazione basata sulle meraviglie della forma canzone (pop): tutti i brani (o quasi) hanno una forma classica (strofa, ritornello, bridge). Anna Rochinski (voce, chitarra, piano, organo, synth), Shane Butler (voce, chitarra), John Andrews (batteria/voce, piano, organo) e Keven Lareau (basso, chitarra acustica), aiutati da Jarvis Tarniere (chitarrista dei Woods e già produttore del precedente “Held in Splendor”), danno forza e concretezza al lato pop e melodico delle proprie composizioni facendosi autori di un scrittura più strutturata, meno dispersiva e ripetitiva. E così si fanno numerosi i pezzi ritmati ed orecchiabili, con riff di chitarra energici, dinamici e linee di basso groovy. I testi, però, non sono poi così solari: “Roller” ha un retrogusto malinconico, racconta di come alle volte sia necessario isolarsi dal mondo circostante, alla ricerca dei propri spazi e delle proprie forze. Ed anche le altre canzoni (in gran parte) nascono come riflessioni, scaturite da anni di esperienze e viaggi in giro per il mondo – da Boston a New York, da Atlanta a Brookyln – e rielaborate poi in chiave personale: “Eliot St.”, “Hissing my plea”. Esiste, quindi, un contrasto effettivo tra la natura delle “piccole cose” trattate nei testi e il suono pop – declinato nelle varie sfumature- non formato esclusivamente dal trinomio chitarra, basso e batteria ma reso più consistente dalla presenza di un quartetto d’archi e dalle tessiture di organo, piano e synth. Pertanto alla tradizionale formula rock si aggiungono elementi complementari, in grado di generare un nuovo equilibrio delle parti: “Own Ways”, ad esempio, una canzone in classico stile psych pop è resa particolare e caratterizzante dall’uso distorto della viola; “Padova”, in chiave psych folk, è in bilico tra leggiadria classicheggiante (nel brano Mary Lattimore suona l’arpa) e mood elettrico. Coesistono quindi, in perfetto equilibrio, più direzioni sonore: la distorsione psichedelica, il tocco barocco ed orchestrato, l’intimismo folk e le venature orientaleggianti. Tutti approcci accomunati da un unico punto di partenza: la costruzione di soave armonie pop impreziosite dall’alternanza/incrocio tra la voce femminile e vellutata di Anna Rochinski e quella maschile di Shane Butler.
Insomma “Plaza” riesce ad essere una raccolta di canzoni di pop psichedelico, piacevoli, ben scritte e fatte. E non è poco di questi tempi.
80/100
(Monica Mazzoli)