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E fu così che arrivò la svolta orchestrale. Detta in questo modo la si fa semplice, ci sono tantissime altre sfumature da cogliere nell’LP9 dei Radiohead (e ci proveremo qui di seguito) ma questo appunto è probabilmente il nodo focale dell’approdo attuale dell’evoluzione sonora dei cinque di Oxford, dei campioni nell’essere loro stessi assecondando la propria crescita artistica e anagrafica all’interno del più complesso mutamento dei tempi, dei suoni, dei gusti e delle tecniche degli strumenti. Ma facciamo un passo indietro, perché “A Moon Shaped Pool” regala una pletora di possibili elementi di discussione.
Dapprima, un commento alla scelta di “marketing” dello scomparire dai social nei giorni precedenti la pubblicazione: in molti hanno storto il naso, perché queste mosse creerebbero un hype eccessivo, in realtà io l’ho interpretata semplicemente come quando a teatro spengono le luci in sala: si capisce che sta per iniziare lo spettacolo. Si attira l’attenzione degli spettatori, e tutti gli artisti – Radiohead compresi – intendono attirare attenzione. C’è chi mi ha detto che dopo questa mossa più che far partire lo spettacolo avrebbero dovuto “buttare giù il teatro”, posta la dirompenza del messaggio “esco dai social” in quest’era che dei socialnetwork non può fare assolutamente a meno. Può darsi, ma per me è stato solo un modo (diverso) per accendere un riflettore, con il risultato ottenuto.
Ma – e ogni buon fan dei Radiohead lo sa – queste disquisizioni sul contorno delle opere radioheadiane non contano un fico secco di fronte al contenuto, l’unica cosa da ascoltare e godere per cercare di assaporare ancora l’indicibile piacere che quasi tutti i precedenti album hanno donato all’assetato fan (rapporto quasi religioso, i Radiohead sono tra le poche band i cui fans considerano un affronto personale sentire il gruppo oggetto di offesa o dileggio, un po’ come i fans dei Beatles con cui non si può discutere… insomma i Radiohead sono quasi come una religione).
Elementi orchestrali, dicevamo. Se per “Burn The Witch” quest’annotazione è fin troppo scontata, potrebbe non essere così evidente che in tutti gli altri brani gli archi marcano passaggi fondamentali e portano a compimento, probabilmente, la personale evoluzione del concetto di arrangiamento da parte di Jonny Greenwood. Certo, i violini non sono mancati nel passato dei nostri (basti pensare, una su tutte, a “Pyramid Song”), ma è a vedere le composizioni soliste di Greenwood che si capisce quanto per lui sia importante l’approccio orchestrale, fin da “Bodysong” (2004) passando per le successive colonne sonore per i film di Paul Thomas Anderson e arrivando alle recenti esibizioni con la London Contemporary Orchestra. Ad ogni album i Radiohead hanno cercato di dare un’anima, e se il ritmo era una caratteristica di “The King Of Limbs” (ricordiamoci che nei live si aggiungeva la seconda batteria di Clive Deamer, che peraltro dovrebbe esserci anche in questo tour), “A Moon Shaped Pool” ha un cuore sinfonico che batte. Ma non solo.
Gli altri due elementi che mi pare ricorrano con una pervicace evidenza sono una certa indole hippie e un ritorno agli sfondi psichedelici “à la OK Computer”. Circa la prima mi riferisco alle atmosfere di due brani come “Desert Island Disk” e “The Numbers”, molto vicine al cantautorato folk americano di fine Sessanta, mentre i rimandi al gusto degli ambienti post-apocalittici di “OK Computer” è più la cornice del tutto, un substrato sottile ma percettibile e percepibile (nel letto sonoro di “Daydreming” e nei cori di “Decks Dark” su tutte le altre songs). Ma “A.M.S.P.” è talmente complesso che nemmeno ora siamo riusciti a descriverlo compiutamente, perché c’è (molto) altro. Ci sono infatti le tentazioni delle ossessioni elettroniche esplorate su mandato soprattutto di Yorke in “Kid A” che riemergono negli andamenti di “Ful Stop” e “Tinker Tailor Soldier Sailor Rich Man Poor Man Beggar Man Thief” (palese la somiglianza dell’incipit con quello di “Everything in its right place”), nonché gli arpeggi suadenti che marcavano “In Rainbows” (“Present Tense”). Insomma c’è tutto l’universo dei Radiohead ricreato con classe e consapevolezza. Non da ultimo nella scelta di chiudere con un classico dei loro live che più classico non si può, “True Love Waits”, in una versione che – a mio parere – non aggiunge nulla a quella che avevamo già avuto modo di avere nei nostri scaffali, ovvero quella contenuta in “I Might Be Wrong Live Recordings”: qui alla chitarra acustica si sostituisce il pianoforte, ma il mood – mutatis mutandis – è il medesimo e non ho capito l’esigenza di riproporla.
Forse, e qui partono le mie personalissime congetture sul substrato di sensazioni che permeano “A.M.S.P.”, “True Love Waits” si ricollega al significato più profondo del disco, che trasmette una mancanza, quel buco (bianco) slabbrato in copertina che pare ingrandirsi sempre più ed inghiottire il tutto. Assenze, come quella della moglie di Thom, da cui Yorke si è separato l’anno scorso dopo 23 anni, e del padre di Nigel Godrich, venuto a mancare proprio durante le takes di questo disco. Sembrerebbe che i Radiohead cerchino di cantare e colmare allo stesso tempo queste perdite. Alla ricerca di qualcosa che non si trova, ma che un ascoltatore attento può credere di sentire, per un poco, in “A.M.S.P.”.
Per poi riperderlo, un secondo dopo.
True love lives
On lollipops and crisps
81/100
(Paolo Bardelli)