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Per la prima volta mi trovo in vera difficoltà a raccontare quello che si è vissuto lunedì sera a Ferrara. Perché ho sempre avuto fiducia nel potere delle parole, e nella possibilità di riuscire a condividere con il lettore le emozioni trascorse durante un live, ma stavolta barcollo. Trasècolo all’idea di descrivere la perfezione che è aleggiata a fianco del Castello Estense a Ferrara durante l’esibizione dei Wilco. Il Castello ne ha viste tante in questi anni, e non stiamo qui ad elencare i nomi che hanno calcato il palco di Ferrara Sotto Le Stelle perché sarebbe sicuramente manchevole, ma stavolta anche lui – credo – è stato in adorante silenzio ad ascoltare Jeff Tweedy e soci come da tempo non gli accadeva. E il pubblico con lui, preso sempre di più ed ammutolito nella consapevolezza di trovarsi di fronte a qualcosa di grandissimo. O per il quale non era preparato: il sottoscritto aveva già visto la band di Chicago, e lunedì era andato per Kurt Vile, evidentemente sbagliando o dimenticandosi qualcosa. Non perché Kurt Vile sia stato sotto le aspettative, ma perché i Wilco le hanno doppiate tutte, le aspettative, come un Gilles Villeneuve che lasciava indietro di un paio di giri un Teo Fabi.
Kurt Vile ha dimostrato di essere un musicista vero, non attento alle pose bensì alla sostanza della sua musica. L’immagine che più rappresenta questa sua essenza è quella finale, con tutti i Violators già sotto la doccia, i roadies lì a smontare il tutto, e lui con due birre in una mano (!) e l’altra che cercava di armeggiare con i potenziometri dell’ampli per far uscire qualche innesco particolare e donare gli ultimi attimi di spettacolo al suo pubblico. Perché – e bisogna dirlo – molti erano comunque lì per Kurt Vile, negli ultimi anni passato dall’Italia solo per una data acustica a Milano nel 2014 e poi basta. Una setlist basata particolarmente sugli ultimi due “B’lieve I’m going down” (2015) e “Wakin On A Pretty Daze” (2013), e non poteva essere altrimenti, con il sound più deciso e marcato quando alla chitarra di Kurt se ne affiancava un’altra (o di Jesse Trbovich o Rob Laakso, del tutto interscambiabili negli strumenti). Un’indole scazza, come direbbero a Bologna, per un’esibizione molto vera ma poco attenta ai particolari o alla compattezza del suono, veramente trascinante solamente nell’ultima “Freak Train”. Un approccio giusto quando sei uno dei tanti in un festival newyorkese, meno se dopo hai quelle macchine da guerra dei Wilco che schiacciano in qualsiasi confronto. Ma Kurt Vile è così, e probabilmente è questo che ci si deve aspettare da un suo live.
Ma veniamo ai Wilco per cercare le parole più adatte. L’aspetto devastante è la capacità di alternare magistralmente le atmosfere tra le canzoni più coinvolgenti “da Madison Square Garden” e quelle sognanti sospese tra un bancone e un tavolo da biliardo in un locale dei profondi States, e soprattutto i precisi, decisi, inesorabili crescendo all’interno delle songs stesse. Da bocca aperta, da scuotere la testa e non crederci. Merito della tecnica certamente, ma più che altro da una coesione che raggiunge forse solo una band a decennio. E se i Wilco manifestano una tale compartecipazione e voglia di suonare dopo aver navigato attraverso due decadi, beh, qui siamo di fronte a qualcosa che sta tra il terreno e qualcosa più in alto. Non proprio ultraterreno, non siamo blasfemi, diciamo che raggiunge una quota di volo d’uccello. Ecco, quella è la metafora più corretta: la band di Chicago plana sulle nostre teste e ci obbliga ad alzare lo sguardo, a cambiare prospettiva e ad accorgerci che c’è anche il cielo – grande, enorme e bello – sopra di noi. Rende migliore il nostro animo.
Gli oculati estratti dall’ultimo non irresistibile “Star Wars” (2015) hanno avuto la capacità di mimetizzarsi benissimo nella pletora di grandissimi classici della band, come se fossero già essi stessi dei piccoli gioielli (del che non ci si accorge dalle versioni in studio). E infine lasciatemi spendere qualche parola per “Art Of Almost”, una canzone che vale il prezzo del biglietto e che potrebbe probabilmente far impallidire gli attuali Radiohead (affermazione molto arrischiata perché il sottoscritto non ha visto i Radiohead in questo tour, ma ha l’impressione che il gruppo di Thom Yorke abbia perso un po’ di smalto di quel pathos che contraddistingueva in maniera mitologica i suoi live).
E tra gli assoli e gli inserti impressionanti di Nels Cline, le doppie voci insostituibili del bassista John Stirratt, il colore sonoro di Pat Sansone, le tastiere matematiche di Mikael Jorgensen, la locomotiva Glenn Kotche e il calore da “nonno” di Jeff Tweedy, si giunge agli encore suonati in versione acustica, raccolti come attorno ad bancone di un pub dell’Illinois. A sorseggiare birra, a pensare al futuro, ad ascoltare i Wilco e a pensare che, se esistono persone che ti trasmettono così tante emozioni con la loro musica, beh, la vita è veramente bella.
01 – More…
02 – Random Name Generator
03 – I Am Trying to Break Your Heart
04 – Art of Almost
05 – Pickled Ginger
06 – Hummingbird
07 – Handshake Drugs
08 – Cold Slope
09 – King of You
10 – Via Chicago
11 – Spiders (Kidsmoke)
12 – Jesus, Etc.
13 – Box Full of Letters
14 – Heavy Metal Drummer
15 – I’m the Man Who Loves You
16 – Dawned On Me
17 – Impossible Germany
18 – The Late Greats
Encore:
19 – Misunderstood
20 – War On War
21 – I’m Always In Love
22 – California Stars
23 – A Shot in the Arm
(Paolo Bardelli)
foto nell’articolo di Michele Zilioli
foto di copertina Luca Gavagna – le immagini – Agenzia di Comunicazione
8 luglio 2016