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Improvvisarsi analisti e interpreti dello stato d’animo di una delle figure più complesse e imperscrutabili della scena musicale contemporanea è uno sforzo ambizioso e, a esser buoni, pretenzioso. Il sedicesimo album in studio di Nick Cave arriva a poco più di un anno dalla tragica morte del figlio Arthur, ma non vi è nessun riferimento esplicito ai drammatici fatti di Brighton, né tantomeno al lutto dei mesi successivi, anche perché tutti i brani erano già stati praticamente scritti prima di quella maledetta estate del 2015. Per chi ha seguito l’avventurosa parabola di un personaggio scivolato negli inferi della tossicodipendenza prima di un percorso spirituale di redenzione e purificazione molto personale, privato e sobrio per quanto eccentrico, non poteva essere altrimenti. Per il resto, la registrazione e il mixaggio si sono protratti fino all’inizio del 2016 e inevitabilmente, sul piano degli arrangiamenti e delle atmosfere, si respira un’atmosfera piuttosto pesante e cupa come ai vecchi tempi, o quasi. L’aria leggera, terrena quasi baldanzosa e beffarda, di “Dig, Lazarus, Dig!” sembra una lontanissima parentesi del passato, quella beffarda e salace di Grinderman una parentesi nella parentesi.
L’interessante, ma non del tutto compiuto “Push The Sky Away” oggi si rivela il preludio più naturale e immediato a questo “Skeleton Tree”. Altri due Bad Seeds si sono fatti da parte: l’inossidabile Conway Savage e Barry Adamson che era tornato a sorpresa in “Push The Sky Away”. Ancora più che in quest’ultimo i Bad Seeds sembrano essere diventati in fase di composizione un affare a due dell’affiatato tandem Nick Cave-Warren Ellis, immortalati nel loro aspetto più umano, nel sofisticato lungometraggio “20,000 Days On Earth”. Il violinista dei Dirty Three ha preso gradualmente in mano le redini della gang dei semi cattivi dopo l’abbandono di Blixa e di Mick Harvey. E col passare degli anni le composizioni di Nick Cave hanno assunto le sembianze di session molto atmosferiche, quasi dei tappeti sonori dal gusto teatrale molto contemporaneo su cui l’inconfondibile timbro baritonale di Cave distende i suoi contorti sermoni. “Skeleton Tree”, così come “Push The Sky Away”, è un album compatto, di appena quaranta minuti. Riemerge però con più efficacia la ricerca di una forma canzone, della strofa, di quei chorus in grado di togliere il fiato e di stimolare dei veri e propri brividi lungo la schiena.
Basta la tetra “Jesus Alone” per capirlo. In sei minuti si resta rapiti in quel mondo fatto di visioni bibliche, invocazioni con un occhio freddo e narrativo alle tragedia della contemporaneità, che rappresenta sempre di più l’immaginario di Nick Cave, dopo “Abattoir Blues/The Lyre of Orpheus”. Non ci sono confini geografici e temporali, da una stanza d’albergo a Tijuana all’incidente di un airshow a Shoreham, esiste solo la voce di Nick Cave, con le sue suggestioni sulla realtà e la caducità dell’uomo. Il lutto aleggia, come un sinistro presentimento che attraversa tutte le nuove composizioni.
Anche quando resta un po’ legato a quella verbosità da “impro” di “Push The Sky Away” nell’andatura quasi rap di “Rings Of Saturn”, unico momento vagamente “solare” e positivo di “Skeleton Tree”. L’atmosfera è prevalentemente plumbee, claustrofobica, paralizza i sensi in due dei momenti musicalmente più intriganti e coinvolgenti: l’arcana “Antracene” e la struggente “Magneto”, dove Nick si addentra nei meandri di quei panorami noir e desolati che l’hanno accompagnato nella sua carriera inquieta e tormentata. “Skeleton Tree”, rispetto agli ultimi capitoli di questo percorso trova un nuovo equilibrio, mette nuovamente in luce la sua capacità di scrivere delle canzoni davvero emozionanti, a dispetto di ogni logoramento, con un repertorio di oltre tre decenni di canzoni immortali. Lo dimostra “I Need You”, senza cedere alla tentazione di ripescare gli arrangiamenti classici del Nick Cave anni Novanta delle “Murder Ballads” o di “The Boatman’s Call”.
Le trame sonore di Warren Ellis continuano ad avventurarsi in quel percorso di ricerca tra drone vaporosi, un raffinato gusto sintetico molto british nella sua accezione più elettronica e notturna, già emerso bene in “Push The Sky Away”. La differenza sta appunto in altre trame, quelle della voce, meno distaccata e narrativa, che torna ad essere straziata e disperata, quasi implorante e singhiozzante nelle sue invocazioni più spirituali. In “Girls In Amber”, poi ancora nella commovente liturgia di “Distant Sky”, dove un po’ a sorpresa è accompagnato da una seconda voce femminile, quella del soprano danese Else Torp. Un duetto in un album dei Bad Seeds non veniva fuori dai tempi delle “Murder Ballads”, ma il tono è meno dimesso e “dark”, il prologo ideale per la catarsi conclusiva della titletrack. “Skeleton Tree” mette il sigillo alla tormentata elegia a cui il brano dà il titolo, con una ballad mistica, per piano, voce e poco altro, che riporta alla mente i vecchi classici del Good Son che si avviava verso un personale cammino di redenzione.
Uno sfogo pacato, misurato, contenuto di un’icona dei nostri giorni vicina alla soglia dei sessant’anni che dopo l’ennesima discesa negli abissi, sembra trovare consolazione unicamente nella sua arte, senza alcuna voglia di strafare o di condividere in maniera aperta e ostentata il suo dolore.
Con “Skeleton Tree”, Nick Cave prova ancora una volta a risollevarsi, come a dare voce, come solo lui può, alla bellezza e alla speranza che sfida ogni giorno la tragedia della realtà e l’ineluttabile miseria dell’essere umano.
84/100
(Piero Merola)