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A Kendrick Lamar sono bastate poco meno di tre settimane per monopolizzare le attenzioni di un seguito sempre più ampio sul suo nuovo album in studio, “DAMN”. Senza proclami, “hint” o ritardi studiati ad hoc, è bastata la pubblicazione di un brano, “The Heart Part 4”, poi nemmeno incluso nel disco, ad anticiparne l’uscita, nel suo testo. Due singoli e due video capolavoro: l’accattivante “HUMBLE.” diventata subito un’ hit con quei sermoni sboccati e senza filtri come un tempo, e “DNA.”. visualizzata in dodici ore (pomeridiane e serali negli USA, notturne nel resto d’Europa) da più di sei milioni persone, con il disco che finisce al primo posto su iTunes persino in Italia dove continuano a dominare le classifiche i nomi nazionalpopolari e le popstar internazionali.
Sicuramente Kendrick Lamar è diventato a pieno titolo un fenomeno pop, un’icona della cultura pop contemporanea, ma resta un’icona anomala: non è un cantante pop, lui continua fondamentalmente a rappare. Eppure riesce ad accrescere la sua fama, conquistando i cuori artisti apparentemente più lontani dal suo mondo. Continua a scrivere canzoni hip hop non troppo immediate per il pubblico medio, con sporadici sprazzi di soul e R&B, testi e citazioni raramente accattivanti e un quadro di riferimenti sempre molto complesso ed elaborato. Piace a Barack Obama che ne è diventato fan. Piace ai movimenti afroamericani delusi dal primo presidente nero della storia che non l’hanno sconfessato, rendendo la sua “Alright” un anthem di protesta. Piace a tanti giovani bianchi e forse a chissà quanti simpatizzanti dell’alt-right. Kendrick resiste e unisce inspiegabilmente un’America mai così divisa, perché il suo percorso è nonostante tutto molto umano e normale. Non vuole ergersi a guru o a profeta dei nostri tempi, non sembra mai cavalcare o strumentalizzare la credibilità che ha conquistato nel suo decennio. Lui preferisce raccontare, senza mai nascondere la fragilità di un giovane americano alla soglia dei trent’anni.
“DAMN.” arriva a ormai cinque anni dalla sbornia di hit generazionali del secondo album di “Good Kid, M.A.A.D City” del 2012 che ai tempi era subito diventato un classico in ogni parte del mondo occidentale fuorché in Italia e a due anni dalla prematura prova di maturità del disco manifesto della cultura afroamericana degli anni Dieci, “To Pimp A Butterfly”. Con questo disco, elegantemente rabbioso e intelligente, aveva finalmente conquistato fan e osservatori più distaccati di ogni genere grazie al respiro contemporaneo dei temi toccati nei testi, ai rimandi alle leggende della cultura black e al fascino senza tempo degli arrangiamenti jazzy e funk.
“DAMN.” è un disco più autenticamente hip hop con il mood, i beat e le basi che conservano una chiara estrazione West Coast, quella dei suoi padri putativi Dr. Dre e Tupac, senza strizzare l’occhio ai nuovi trend hip hop contemporanei, come in parte faceva nel secondo album. L’inconfondibile flow non accarezza quasi mai l’ascoltatore come nei momenti più morbidi e catchy degli ultimi due album. Lo ammonisce e lo schiaffeggia, trascinandolo in un racconto crudo e impietoso, mai rassicurante o disteso. Non ci sono momenti soul o gospel come negli ultimi album manifesto dell’era Obama, si pensi a Chance The Rapper, Frank Ocean e Kanye West (a parte forse l’invocazione all’America e la straniante incursione bluesy di Bono Vox in “XXX.”). La sua epica spirituale è costruita su sonorità decisamente urbane, tra forti immagini di strada figlie dei ricordi di Compton, una spiritualità tormentata e labirintica, tra Deuteronomio, flash del passato, attualità e semplici racconti quotidiani: l’American Dream infranto, l’effimera tentazione del dio denaro di due generazioni di afroamericani, la crisi di valori della società statunitense, una stanca voglia di rivalsa e le drammatiche conseguenze di decenni di scontri tra gang, i sacrifici di migliaia di giovani delle tante chiraq del paese, immagini ripescate dai discorsi di Martin Luther King e ancora da racconti e “parabole” di personaggi meno noti del movimento di emancipazione black.
Il filo conduttore di “DAMN.” si sviluppa in una tormentata dicotomia tra dannazione e salvezza, dai forti richiami biblici. Dal preludio di “BLOOD.” alla straripante “DNA.”, dove DNA sta per Dead Nigger Association in cui in un sample compare la voce di Gerald Rivera che aveva attaccato su Fox il suo brano “Alright” per i contenuti violenti e diseducativi. Lo stesso frammento è usato nella traccia d’apertura, e lo stesso Rivera è chiamato direttamente in causa nella traccia successiva, “YAH.”. Qui Kendrick si presenta con il nuovo moniker Kung Fu Kenny e guarda indietro accogliendo il dj hip hop anni ‘90 DJ Kapri e rivendicando le origini israelite del popolo afromericano. L’atmosfera è sempre tesa e avvelenata, con rare eccezioni: nella radiofonica “LOYALTY.” (sua prima volta con Rihanna), “LOVE.” (accompagnato da Zacari) e in parte in “LUST.” sembra scacciare momentaneamente i fantasmi, trovando un vago sollievo accentuato dal mood R&B e pop dei brani. I toni restano plumbei in un ideale fuga dai centri del potere americano attorno ai quali esplodeva la rabbia di “To Pimp A Butterfly”. K.dot. sembra alla ricerca di isolamento, di un ritorno con la mente e l’anima alle strade della sua Compton che hanno forgiato il suo immaginario lirico e musicale. In “FEEL.” il tormento assume una dimensione ancora più intima e umana, prima di aggrapparsi nuovamente a un’ancora di salvezza religiosa in “PRIDE.”.
Il team di collaboratori e producer è come sempre di altissimo profilo, tra fedelissimi e novità: Mike Will Made It, DJ Dahi, The Alchemist, James Blake, Terrace Martin, Sounwave, Kaytranada, BADBADNOTGOOD per fare alcuni dei nomi che rendono la produzione sempre e comunque attuale e assolutamente figlia del suo tempo.
Il tortuoso percorso di “DAMN.” tra disillusioni e inquietudini si fa più intenso e drammatico nel finale con l’introspezione di “FEAR.” e poi ancora in “GOD.” e nella traccia di chiusura, la dimessa “DUCKWORTH.” (suo cognome ufficiale), dove pensa a cosa sarebbe stato di lui e del suo futuro da artista se fosse andato a segno il tentato assassinio del padre Ducky, qualche anno prima che la TDE lo mettesse, appena quindicenne sotto contratto. Per fortuna, possiamo dirlo, la storia ha avuto uno sviluppo diverso.
Ci vorrà del tempo per dare il valore che merita a un’opera così complessa che arricchisce di nuovi particolari e suggestioni la mitologia urbana di un ventinovenne che facendo hip hop come tanti suoi coetanei afroamericani è diventato l’artista più importante del suo tempo.
92/100
(Piero Merola)