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Mettiamola così, il palcoscenico ha in sé una certa sacralità. Gli Wovenhand sono una delle band che più sanno sviluppare questo aspetto, e anche a Milano – dopo il concerto del Bronson di Ravenna di cui vi ha parlato (con parole e soprattutto immagini) la nostra Chiara – hanno dimostrato di essere un gruppo unico da questo punto di vista.
E’ una dimensione che va al di là dell’arredamento del palco in cui fanno bella mostra di loro bandiere americane che sembrano sudiste e paesaggi indiani abbelliti da lucine blu molto kitsch, e che prescinde anche dal gesticolare sciamanico di David Eugene Edwards, che ad occhi chiusi si muove come un grande capo indiano. Tutto questo aiuta, certo, ma è nello stesso suono sotteso che si ricrea l’atmosfera sacra di Wovenhand. Sottopelle e sottotraccia alle parti di chitarra, basso e batteria, infatti, la band del Colorado mantiene una tensione sonora fatta di inneschi e feedback che sono come una porta in questa dimensione altra. Parrebbe di essere all’interno di una storia di fantasmi, oppure ai racconti di Spoon River.
Al di sopra, palesato, si mantiene invece il suono della band molto oculato: batteria equalizzata con cura, voci-megafono che paiono provenire dall’oltretomba, chitarre effettate per costruire muri di suono nonostante i flanger, chorus e delay utilizzati (con corretta parsimonia).
Al contrario di Chiara ho trovato il live dei Wovenhand particolarmente “chitarroso”, un concerto che a tratti trasfigura il loro alt-country in un afro-metal (!) per l’incedere preciso delle pennate e il tambureggiare ipnotico sottostante. Nessuna concessione ai sentimentalismi, il rito dei Wovenhand è nudo e crudo, non rassicurante, mette dubbi.
Che poi, a pensarci bene, è l’approdo necessario dell’uomo pensante nonostante tutti i suoi riti, religiosi o pagani che siano.
(Paolo Bardelli)
foto sopra di Paolo Bardelli
foto in home di Chiara Viola Donati