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A un certo punto degli incontri pomeridiani di Club To Club condotti da Carlo Pastore siedono uno affianco all’altro Daniele Mana (già Vaghe Stelle), Alessio Natalizia (Not Waving), Simone Trabucchi (Still), Nico Vascellari e Nicolò Fortuni dei Ninos Du Brasil. Manca solo Lorenzo Senni, che arriverà il giorno dopo, tra i più importanti artisti in cartellone di The Italian New Wave, il booking-movimento lanciato dalla direzione del festival torinese per mettere in vetrina le eccellenze italiane d’esportazione. Il nome può suonare fuorviante perché “new wave” rimanda inevitabilmente a qualcos’altro e perché di “italian” questi nomi hanno ormai solo le origini e il passaporto, aspirando a una dimensione e a contaminazioni transnazionali. In ogni caso, pur con sonorità e generi molto diversi tra di loro, i suddetti, negli ultimi tempi, hanno avvicinato la musica italiana al mondo, uscendo per primi, o tra i primi italiani, su alcune delle label più influenti della scena elettronica e techno.
Mana, che ha annichilito i presenti con un live visivamente intenso e avvolgente, ha fatto uscire il suo primo EP col nuovo moniker sulla prestigiosa Hyperdub.
Not Waving, che ha alzato i bpm ridestando i più spossati e segnati in una delle fasce orarie più ostiche, è tornato di recente con un altro album sulla Diagonal di Powell (anche lui in cartellone in uno speciale set affiancato dai visual di Wolfgang Tillmans nel day 2).
Still, che ha regalato uno dei momenti più ballabili del weekend con un irresistibile performance di “digital dance hall” affiancato da quattro vocalist, ha esordito con “i” sulla Pan di Bill Kouligas.
I Ninos Du Brasil, gli unici a esibirsi nel main stage con il gravoso compito di chiudere alle 5 di mattina la lunga programmazione di venerdì, dopo essere usciti su DFA, si sono addentrati in panorami più oscuri con “Vida Eterna”, uscito ancora una volta per la Hospital Production di Dominick Fernow aka Prurient aka Vatican Shadow.
Tra gli aspetti più intriganti di questa diciassettesima edizione di Club To Club emerge il successo nel portare davanti a una platea più ampia artisti del genere, spesso relegati negli ultimi anni, a situazioni più intime e underground in alcune delle realtà, periferiche e non, che tengono l’Italia agganciata al treno delle tendenze elettroniche e sperimentali che si rincorrono e si avvicendano nel resto del mondo (dove questi stessi artisti hanno già riscosso ottimi riconoscimenti).
Così, il primo italiano finito sotto Warp, Lorenzo Senni, che appena due settimane prima si era esibito alla preview milanese del festival, è accolto nuovamente come una star, da un’ovazione che non può che emozionare chi lo segue da un po’, così come chi si ne è innamorato per la recente, meritatissima ascesa. E la performance, come sempre, non delude le attese unendo i presenti in una sorta di rito collettivo. Come quello della “chiusura della chiusura” con la devastante e dissacrante performance del progetto Gabber Eleganza di Alberto Guerrini che trova, come tanti altri show, un habitat ideale nella Sala Red Bull, ampliata, spostata ed avvicinata alla main room, in uno scenario più freddo e industriale che evita file, intoppi e resse, come era successo negli anni precedenti nella famigerata Sala Gialla del Lingotto. Nonostante il sold out del venerdì e quello sfiorato il sabato, le capienze studiate sono molto razionali e la situazione resta sempre vivibile e sostenibile, anche negli orari di maggiore affluenza.
È difficile offrire un racconto dettagliato di tutti gli act. C’è da dire che rispetto agli altri anni, in controtendenza con i festival elettronici, il cartellone ha moltissimi live. E la cosa funziona nel caso di Arca, un altro degli affezionatissimi di Club To Club, che con il suo lirismo e la sua performance riesce a stregare chi si è presentato già prima delle 22 per godersi il suo spettacolo dal meraviglioso ultimo album. Da brivido. Così come nel caso del dei maestri del weekend, Actress e Demdike Stare che condensano in un’ora dei rispettivi set quanto di meglio è venuto fuori da un decennio di suggestioni e intuizioni made in UK o di Ben Frost e Lanark Artefax che annientano i sensi con i suo peculiari muro di suono. E nel caso della sconvolgente Jlin (una nostra vecchia scommessa di cui siamo fieri) con la sua footwork eterodossa martellante e ad altissima intensità, o di uno straripante Mura Masa accolto da una platea degna di un paese civile, o dei Jungle che con il loro funk contemporaneo e urbano che ci abbracciano con classe ed eleganza in apertura della seconda serata al Lingotto. Funziona inevitabilmente meno nel caso della pur pregevole Laurel Halo che si avventura in un live cervellotico poco commestibile per chi vorrebbe rompere il ghiaccio e divertirsi o di Yves Tumor che a tarda ora non bada a spese con una performance noise forse estrema per l’orario e per il dancefloor (cosa che riesce invece per forza di cose molto meglio agli Amnesia Scanner in un pre-serata sui generis delle 21 che stura subito i timpani e attiva i sensi).
Per gli stessi motivi non sono mancate lamentele sul live di Nicolas Jaar e Bonobo, ma avendoli saltati, preferisco soffermarmi su uno dei momenti della serata più attesi da chi guarda questi eventi dal “mondo esterno”. E si può ammettere senza vergogna che Liberato, anche grazie all’ottima produzione e al set a/v ideato dal gruppo Quiet Ensemble, riesce a convincere e a fare un’ottima figura, rispetto all’acerbo live presentato in anteprima nazionale al Mi Ami del 2017. Non ci è dato sapere, né importa più di tanto, chi si nasconda incappucciato con quelle luci che impediscono di scorgerne volto e fisionomia, ma i chiacchieratissimi tre singoli già presentati negli scorsi mesi (e l’inedito portato a Torino), danno al pop italiano una dimensione finalmente fresca e vincente. E soprattutto ridanno a Napoli e al cantato in napoletano quella freschezza contemporanea degna di una delle metropoli del nostro paese più vivaci, contaminate, aperte e storicamente influenti dal punto di vista musicale.
Ci sarebbero da citare anche le norvegesi Smerz e l’inconsueto antipasto di Kamasi Washington nel suggestivo spazio delle Officine Grandi Riparazioni riaperte al pubblico a inizio autunno e che hanno ospitato quattro giorni di full immersion in 3d nella discografia dei Kraftwerk e gli artisti persi (come appunto i Kraftwerk) per motivi logistici e per le dolorose sovrapposizioni che poi rappresentano l’autentico e amaro tratto distintivo di un festival con una programmazione davvero degna di nota.
Per l’affermazione nel dancefloor di una nuova forma di ballo di coppia “cheek to cheek”, come espresso dal coraggioso concept del 2017, c’è ancora bisogno di tempo o forse lo dico semplicemente per visioni e gusti personali. Ma ciò che resterà impresso di quest’ultima edizione di Club To Club è un festival sempre più vario e più “festival” che edizione dopo edizione diventa il weekend italiano più stimolante per una platea bella ed eterogenea.
Un weekend da godersi, se possibile, dagli appuntamenti pomeridiani fino all’ultimo set notturno.
Irrinunciabile.
Credits Foto: www.facebook.com/clubtoclub