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Era l’inizio degli anni zero. Otto e Mezzo lo conducevano Ferrara e Lerner, per natale ricevevamo 600 sms nell’arco di due/tre ore e i prezzi nei negozi venivano esposti in doppia valuta. Da qualche parte iniziava a prender forma la scena DFA e da qualche altra saliva ormai forte la febbre electroclash. Che poi in fondo non è che fosse tutto questo portento d’innovazione, sia chiaro. La ricetta di gente come Fischerspooner, Mount Sims, DJ Hell consisteva nel prendere un’estetica anni ’80 tra “Blue Monday”, Gary Numan e un sentore di Alan Vega alla luce di qualche istanza punk senza chitarre (o quasi). Trattavasi di una pietanza che poi abbiamo visto replicare tante di quelle volte nei lustri successivi da non poterne più, spesso con un colpevole allungamento del brodo. Eppure in quel momento questa cosa ha significato davvero molto.
Casey Spooner e Warren Fischer hanno pescato grosso con “Emerge” a fine 2001. Una ritmica ossuta, un video burlesco (oggi invecchiatissimo), un ritornello inossidabile. Buttarla in casino dandosi un tono art-pop, insomma. Quella canzone è stata un colpo assoluto. Ben differente dagli stimoli di MTV del momento, quasi tutti più sofisticati, puliti, contestualmente tracciati. L’electroclash non è stato propriamente una scena anche se il cuore di tutto il discorso è stata un’etichetta relativamente piccola come la International Deejay Gigolo Records (di Hell, appunto). E da lì, a varie latitudini, Ladytron, Vitalic, Miss Kittin & The Hacker, Tiga hanno finito col disegnare la mappa di un fenomeno che inevitabilmente ha visto ridursi il suo flusso, almeno in quella forma. Nel giro di pochi anni i nomi erano in gran parte rimasti ma il fermento, quel fermento si era placato. I Fischerspooner dopo #1 (dentro c’era anche “The 13th”, la cover dei Wire) hanno fatto due album (nel 2005 e 2009) e trafitto pochi altri cuori. E questo SIR sta lì, appunto, sulla stessa riva di Odyssey ed Entertainment.
SIR è un disco omogeneo, ben prodotto, con poche sorprese e, sì, naturalmente anche tante prevedibili conferme. È un disco che nonostante lo zampino di BOOTS non è quasi per nulla alla moda (e fin qui niente di male), però non è neanche così fuori moda da disarmare qualcuno. Per buona parte siamo nei paraggi dei Pet Shop Boys più adulti o dei Depeche in zona anni ’10. Caroline Polachek presta la voce in “Togetherness” ed è sempre un immenso piacere sentirla. L’album si affida soprattutto ad alcuni guizzi che si chiamano “Discreet” e “I Need Love”. I Fischerspooner del 2018 accentuano con vigore i contenuti LGBT anche a livello d’immagine e comunicazione (prendere il controverso video di “TopBrazil”). Sul piano strettamente musicale, però, non riescono quasi mai a scuotere altrettanto. Si resta spesso nel mezzo tra una buona intuizione ritmica e l’adesione ad un modello di dance-pop sofisticato che non affonda il graffio.
E pensare che questo lavoro vede la presenza in produzione e scrittura (tra gli altri) anche di un signore che si chiama Michael Stipe. Stipe potrebbe sembrare quanto di più distante da questo mondo fatto di dancefloor e pettorali in vista ma la connessione personale e sentimentale tra lui e Spooner è comunque di rilievo. Parliamo della storia d’amore fra Stipe e uno Spooner diciottenne in quel di Athens, nel 1988 e di un’amicizia mai interrotta. Pregevole il modo in cui oggi il cantante dei R.E.M, lontano da qualsiasi protagonismo, si coinvolga pienamente ma poi riesca a lasciare in dote le parole e la loro interpretazione a qualcun’altro a lui così vicino.
SIR è un disco personale e fisico ma anche battagliero e politico. Ha tutte le sembianze della festa trash esagerata ma sotto all’ipersessualizzazione e agli ammiccamenti c’è un manifesto di istanze combattenti. Più o meno riuscito, certo, spesso rischia di essere fagocitato dai suoi stessi principi. Dice Casey Spooner che l’America di Trump comporta la necessità di estremizzare un po’ le cose e ribadire quel che prima era ovvio. C’è appunto questa figura quasi macchiettistica del cantante con i baffoni seventies, sempre mezzo nudo e con quei capelli lì che sono davvero al limite del ridicolo. Poi uno pensa al Presidente e forse tutta questa ridondanza non è né stupida, né superficiale.
65/100
(Marco Bachini)