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Al suo quarto lavoro a nome Blood Orange, Devonté spinge ancora di più sul lato black. C’è questo titolo che parla abbastanza chiaro e che, per quel che gliene può fregare a Dev, sfida anche gli algoritmi cerberi di facebook. Racconta la vita da una prospettiva che cerca la felicità nel mare delle discriminazioni. Lo fa a tutto campo, attingendo alla propria biografia ma non solo. Essere neri, essere gay, essere transgender (nei ricorrenti spoken a cura di Janet Mock), essere ai tempi di Trump in America, che poi è l’Italia.
Ci sono le consuete buone dosi di Prince, di quell’80’s pop che pochi sanno maneggiare come Hynes ma anche di tanto r’n’b e soul contemporanei. Per dirla un po’ male, c’è un po’ meno Janet Jackson e più Frank Ocean, forse. E naturalmente c’è il solito pool di collaboratori di lunga data a dar coerenza: ci sono i fiati onnipresenti di Jason Arce e le apparizioni di Adam Bainbridge (che poi sarebbe Kindness) e di Aaron Maine (che poi sarebbe Porches). Per certi versi è quasi una scena quella che ruota attorno a Blood Orange. Punti cardinali del sottobosco di un pop moderno. Convince pienamente il funk digitale rallentato di “Out Of Your League” con Steve Lacy del collettivo The Internet. E la ruota panoramica di ospitate si avvale anche qui di nomi mainstream come quelli di Puff Daddy e A$ap Rocky. Il disco, come il precedente, nei suoi incastri fluidi conserva una struttura da mixtape.
“Negro Swan” per alcuni è un lavoro a bassa voce e introverso che non raggiunge le vette dei due precedenti. Meno vario di “Freetown Sound”, in effetti, con meno ganci strappacuore di quelli contenuti in “Cupid Deluxe”. Ma non è di certo meno ispirato. La scrittura si è parecchio raffinata dai tempi di “Coastal Grooves” e del periodo a marchio Lightspeed Champion. Buoni i singoli (“Charcoal Baby”, “Saint”) ma ci si innamora soprattutto di certi piccoli passaggi brillantissimi: la perlina “Dagenahm Dream” e il pop jazzato di “Minetta Creek” dove pare di sentire il piano di Joe Jackson in “Left Of Center” di Suzanne Vega. C’è poco da fare, la ricorsività di un andamento così vellutato accostato al piglio amaro e battagliero è la forza dell’album. Il titolo che porta connette la dolcezza con le asperità, racconta il divenire, fotografa la luce e il buio senza filtri. Un’opera che ha strati d’ovatta e poi, sotto, un materiale in ebollizione.
E, intendiamoci, Devonté Hynes non è uno che non le saprebbe dire con più vigore, certe cose. Insomma, suonava nei Test Icicles, diobono. “Negro Swan” trova linfa e ragione proprio nel suo torpore di facciata. Lascia il segno ma con una leggerezza spiazzante. Si poteva rispondere urlando sopra alle urla altrui, inficiando però le proprie istanze più profonde. Il diritto ad una felicità al momento compressa, forse, si esprime meglio così. Bello che non si capisca bene quanto queste canzoni siano stanche e doloranti o invece leggere e un po’ vergini. Sono canzoni che cercano di nutrirsi d’illusioni e scavalcano il dolore che gli sta intorno e forse anche davanti.
82/100
(Marco Bachini)