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“La musica del nuovo millennio è tutta derivativa, non esce nulla di radicalmente innovativo, viviamo un’epoca di perenne revival”. Lo dice Simon Reynolds nelle 500 pagine di Retromania e lo dice anche il 50enne che rimpiange i tempi andati con un post triste su Facebook.
Qual è la forza di un artista come Kevin Parker in un panorama così stantio ed incerto?
Il suo successo è dovuto al fatto che nel giro di dieci anni e quattro dischi è riuscito a confermarsi come uno dei producer più richiesti al mondo attraverso uno stile, sì, palesemente retrò/nostalgico, ma mettendoci dentro una personalità ed un tocco tali da creare alcuni dei prodotti più freschi degli ultimi tempi. L’emblema delle sua influenza nel music business è la playlist Time Warp pubblicata su Spotify poco prima dell’uscita di The Slow Rush, quarto disco a nome Tame Impala: è una collezione dei brani su cui Parker ha messo le mani negli ultimi anni, ed oltre i prevedibili Pond e Melody’s Echo Chamber, compaiono anche Rihanna, Lady Gaga, Travis Scott, A$ap Rocky, Kali Uchis, per dirne solo alcuni. Ecco, tra fuzz e autotune, riff stoner e casse dritte, il musicista di Perth ha dato vita ad un suono ibrido che è diventato un marchio di fabbrica della neopsichedelia, celebrato dalle vecchie generazioni (quelle delle chitarre e dei festival con le band come headliner) ma anche dalla nuova (quella che cerca la musichetta da mettere come sottofondo alle storie Instagram). Di artisti transgenerazionali che possono piacere a pubblici eterogenei, di diverse estrazioni e generi musicali di riferimento, se ne contano sulla punta delle dita, da Mac DeMarco a Frank Ocean e Tyler, The Creator. Kevin Parker è entrato con classe in questo piccolo Olimpo del mainstream intelligente grazie ad un progetto, i Tame Impala, sempre riconoscibile al primo ascolto ma contemporaneamente in perenne mutamento. Basta infatti osservare la palette cromatica disegnata a partire dall’EP garage del 2008 con Half Full Glass of Wine fino all’ultimo lavoro, arrivato nel giorno di San Valentino del 2020.
Ciò che già latitava in Currents rispetto ai dischi passati qui viene praticamente azzerato: non compaiono più i riffoni rock da stadio come Elephant e The Less I Know The Better, ma si insiste su un versante di simil-house e sintetizzatori (One More Year), bassi ciccioni da disco (Borderline, Lost in Yesterday) e un generale clima da rincoglionimento post-botta di ecstasy. Tra Chemical Brothers, ASTROWORLD di Travis Scott, lo Yacht Rock anni ’80 (soprattutto il singolo Patience, che per qualche motivo non è presente nell’album) e i Daft Punk più melodici. Il suddetto marchio di fabbrica rimane costante ed inalterato nonostante ogni mutamento, dal caratteristico suono della batteria a, soprattutto, quel falsetto e quelle liriche evocative che farebbero provare nostalgia di un amore passato anche ad un quattordicenne. Normale, in cui disco che parla così efficacemente della malleabilità del tempo e dei ricordi, metaforicamente rappresentati dalla sabbia che si accumula sulla copertina del disco.
Se qualcuno potrebbe lamentare una mancanza d’adrenalina nel corso della tracklist, è perché Parker ha voluto direzionare la sua peculiare visione della musica su un versante più rilassato e, se possibile, ancora più onirico rispetto al passato. E lo fa centrando ancora una volta il colpo e confermandosi sempre più come l’autorità che è diventata nel panorama musicale internazionale.
80/100
Stefano D. Ottavio